lunedì 22 agosto 2011

Lavoro flessibile

Antonella aveva 19 anni compiuti da poco, un diploma fresco fresco e doveva finalmente affrontare la sua vita.
Abitava in una piccola città di provincia, quasi un paese, con un grande polo industriale che accoglieva ondate di operai da tutte le frazioni vicine. Antonella, come la logica suggerisce, aveva dapprima cercato un lavoro attinente ai suoi studi. Aveva studiato da disegnatrice orafa e si aspettava, quantomeno, di lavorare in un laboratorio di produzione di gioielli e altri accessori. Fu sfortunata però, in paese non c'era rimasta più nessuna azienda di quel tipo e nei piccoli negozi di oreficeria che si affacciavano sulla via principale non assumevano disegnatori, al massimo qualche commessa, ma che fosse esperta di contabilità, carature e altre discipline più commerciali che artistiche. Antonella quelle cose non le aveva mai studiate ma tanto di fare la commessa non le andava. Lei voleva disegnare anelli e collane, ed era anche molto brava.
Tentò di specializzarsi facendo domanda per un corso professionale in una scuola prestigiosa di moda e costume, che selezionava rigidamente gli studenti con un esame di ammissione. Antonella era pronta a tutto e avrebbe sostenuto qualsiasi esame... ma guardacaso le dissero che per quell'anno il corso non sarebbe stato attivato. Chissà chi era più sfortunato, se loro o lei, che nuovamente si trovava senza una strada per il suo futuro.
Dopo aver trascorso qualche mese a casa organizzandosi alla meglio tra iscrizioni agli uffici di collocamento, visite frequenti al Comune del paese, riviste di annunci, colloqui, corsi di orientamento alla fine si arrese a un suggerimento che le avevano dato certi suoi amici sfaccendati: le agenzie di lavoro temporaneo.
Si chiamavano così nelle grandi città. Nei piccoli centri invece erano dette cooperative. Antonella non capiva la differenza, sapeva solo che queste davano lavori saltuari di pochi giorni e sempre diversi. In quei tempi si facevano grande pubblicità queste agenzie, o cooperative: dicevano che il lavoro temporaneo era giovane, dinamico, flessibile, creativo. Lo slogan più comune era "gestisci il tuo tempo", come a voler dire che lavorare in quel modo permettesse di avere gli orari che più facevano comodo. Ma a sue spese Antonella scoprì che tutto ciò non corrispondeva al vero.
Dopo l'iscrizione non si fece vivo nessuno per giorni, poi una mattina alle 11, mentre si lavava i capelli ricevette una telefonata. Le chiedevano di andare in una fabbrica vicina a casa sua per sostituire una signora in maternità "...Sì, ma che devo fare?" volle sapere lei "Lo chieda lì". Strano, non sapevano qual'era la mansione che le affidavano?
Con i capelli bagnati Antonella si precipitò sul luogo di lavoro, si affacciò al gabbiotto del portiere e gli spiegò la faccenda della sostituzione. Quello non fece una piega, si alzò e le fece strada dentro un capannone dove una ventina di persone sedute intorno a dei tavoli armeggiava con delle buste postali di quelle gialle e grandi. "Cosa devo fare?" gli domandò lei, il portiere rispose di farselo spiegare dagli altri.
Allora Antonella si sedette al primo posto libero, tra una ragazza e una signora abbastanza matura. Queste due le insegnarono finalmente il misterioso "lavoro": le buste gialle contenevano i moduli di un censimento alle imprese di tutta Italia e loro dovevano aprirle una per una, dare un'occhiata sommaria al contenuto, appiccicare un'etichetta numerata e buttarle in uno scatolone. Se trovavano qualche altro foglio estraneo nella busta lo buttavano, se c'era scritto che il destinatario era deceduto o errato andavo messe in una scatola speciale. Tutto qui? - si domandò perplessa Antonella, tuttavia si avviò anche lei in quella pratica ripetitiva che le avrebbe occupato 8 ore della sua giornata con una paga di 8.000 lire l'ora.

La fabbrica era un'industria tipografica con degli operai fissi che stavano alle rotative, e per arrotondare si prendeva in appalto dei lavori esterni che non assegnava ai propri dipendenti ma si faceva mandare dalle agenzie, o cooperative, un po' di gente che non doveva assumere e quindi non doveva pagare con un trattamento normale.
Il censimento delle imprese italiane era nelle mani di Antonella e dei suoi colleghi, ai quali non poteva interessare di meno, per cui a volte si perdevano le buste o ne danneggiavano il contenuto. In qualche caso la busta gialla non era destinata al censimento e le Poste l'avevano buttata nel mucchio per sbaglio, così i lavoratori temporanei l'aprivano lo stesso e il contenuto veniva irrimediabilmente buttato. Antonelle vide andare perdute per sempre domande di lavoro, lettere dal carcere, raccomandate importanti e pensava a quelle ignare persone ormai danneggiate. Si spiegava finalmente perchè alcuni servizi postali non funzionassero.
Gli altri operai li chiamavano lavori dei deportati quelli che facevano fare ad Antonella, perchè erano veramente dei lavori stupidi che qualcuno doveva pur fare. A volte svuotavano buste, a volte riempivano buste. Raccoglievano fogli, attacavano etichette, chiudevano scatole, imballavano plichi, sballavano plichi, aprivano scatole, staccavano etichette e così via.
L'agenzia, o cooperativa, che li aveva mandati li pagava per il numero preciso di ore che avevano lavorato, registrate sui cartellini e se si andava via a metà giornata l'altra metà non era pagata. C'era l'inconveniente, però, che i lavori dei deportati finivano, ma nessuno poteva stabilire quando: tutto dipendeva dalla velocità con cui i lavoratori armeggiavano le buste. Ciò era controverso, perchè da una parte loro, i lavoratori, naturalmente facevano in modo che il lavoro durasse il più possibile, rallentandosi, perdendo tempo, nascondendosi qualche busta di scorta, d'altra parte i capi volevano che si sbrigassero, ogni giorno pretendevano un numero superiore di scatole imballate e di buste etichettate, perchè più stavano lì e più dovevano pagarli.
Con queste modalità non si lavorava tutti i giorni ma solo quando si veniva chiamati, il che poteva avvenire a qualsiasi ora del giorno. Non rispondere alla chiamata o rifiutare significava perdere il lavoro anche per mesi perchè avrebbero chiamato qualcun altro.
Antonella dopo pochi giorni in quel posto ci stava malissimo, anche perchè, oltre allo squallore del lavoro in sè, aveva scoperto che tra gli altri lavoratori c'era la gente più disperata, chi manteneva la famiglia così, chi aveva malattie, chi viveva quasi per strada. E si sa che certe cose scatenano guerre tra poveri, infatti in quel capannone aleggiava un clima di complotti e dispetti. Capitava alle volte che qualcuno venisse mandato via e mai più richiamato. Poi si scopriva che un altro lavoratore era andato a parlar male di quello con i capi.
C'erano due o tre persone che lavoravano sempre, tutti i giorni, per tutti i lavori. Antonella venne a sapere molto dopo che erano parenti dei capi.
Peggio ancora, nessuno di loro aveva un'assicurazione ne strumenti per la sicurezza. Se qualcuno si faceva male, cadendo da una pila di rotoli di carta o travolto da scatole mal riposte in colonna, in men che non si dica veniva regolarizzato, così quando, un'ora dopo circa, si presentava l'ispettore del lavoro, risultava sempre che il ferito era stato appena assunto dopo un periodo di prova e l'azienda non passava troppi guai. Ovviamente il ferito si prendeva una ramanzina per non essere stato attento e aver messo in difficoltà l'azienda.
Tutti loro erano schiavi, ne più ne meno.
Per circa due mesi la mandarono sempre alla stessa fabbrica. Ci lavorava per una settimana intera, poi una settimana a casa, poi dieci giorni filati, poi tre giorni a casa, poi un'altra settimana e poi due settimane a casa. Quando i giorni a casa cominciarono a diventare troppi Antonella temette che qualcuno l'avesse fatta cacciare parlando male di lei. Ma una sera, mentre era a cena, le arrivò la fatidica chiamata: la mandavano in un'altra fabbrica.
Era lontana da casa, in mezzo al quartiere industriale, intorno solo fabbriche, una pizzeria poco fornita per pranzare a sue spese e una strada trafficata. Appena arrivata la fecero entrare in un capannone più piccolo di quello in cui aveva sempre lavorato, ma molto più affollato. Non conosceva nessuno e non sapeva che lavoro doveva fare. Chiese agli altri lavoratori ma tutti erano scostanti, seccati dal doverle fare da balia e le rispondevano con sgarbo. Il motivo sembrava essere che più gente veniva convocata e meno lavoro c'era per tutti, quindi meno ore sul cartellino e meno soldi alla fine del mese.
In questa fabbrica Antonella non ebbe il tempo di capire cosa si producesse, ma il suo lavoro consisteva nell'imballare le confezioni delle schede SIM dei cellulari con le ultime offerte commerciali che poi sarebbero andate sugli scaffali dei negozi di telefonia. Questo lavoro aveva la particolarità per cui, trattandosi di articoli di valore, per paura che i lavoratori temporanei li rubassero, durante il lavoro venivano chiusi a chiave dietro un gigantesco cancello nell'area del capannone dove stavano radunati e alla fine della giornata dovevano registrare sul computer la quantità di oggetti che avevano maneggiato e tutti i movimenti che avevano fatto.
Antonella rincasò traumatizzata dalla giornata di lavoro e piuttosto che tornarci il giorno dopo telefonò all'agenzia, o cooperativa, e si diede per malata.
Per una settimana non si fece vivo nessuno, ma poi la richiamarono un'altra volta nella fabbrica vicino casa sua.
Nel mese di agosto la fabbrica chiudeva, per tutti. I lavoratori erano in ferie forzate e per tutto il mese non ci sarebbe stato lavoro nemmeno volendo.
Antonella in tre mesi che aveva lavorato così non aveva fatto lo stipendio di un mese di sua madre. A settembre telefonò per l'ultima volta all'agenzia, o cooperativa, per dire che si iscriveva a un corso professionale e che non avrebbe lavorato con loro per un pezzo.
Non ci tornò mai più. 

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