lunedì 3 giugno 2013

Tu lo sai perchè

L'ascensore ha un pavimento rosso e uno specchio sul lato opposto alle porte, come tutti gli ascensori. Ci guardo dentro e non riconosco nessuno.
Sto salendo, il viaggio sembra non finire mai, non so qual'è l'ultimo piano. Cosa sto facendo?

Cosa sto facendo? E lo sto facendo bene? Come finiranno questi giorni in cui spendo molte energie a dimostrare di valere qualcosa?

Scrivo reportage, spargo un po' di notizie su fatti che accadono troppo lontano da me. Ho scritto alle istituzioni, era il minimo che potessi fare. L'ho chiamato "impegno civile" e l'ho fatto in varie lingue.

Vinceranno la loro battaglia? I presupposti sono molto buoni, c'è da sperare che non sopraggiunga la noia, come in tutte le rivolte che si estendono troppo a lungo.

Ho notato che in tutti gli altri paesi si sono organizzati bene, si fomano folti gruppi di sostegno. Qui ci sono solo io. Devo essere l'unica persona in questa nazione che sta supportando la vostra battaglia. È probabile che chi mi conosce non veda di buon occhio quello che faccio ma è "impegno civile", ho i miei motivi per essere solidale a un'altra popolazione. Ho le mie ragioni, "civili", umane... forse.

Mi racconto molte bugie, in questa salita interminabile verso l'ultimo piano del mondo. Tu lo sai perchè lo faccio. E il fatto che tu lo sappia vanifica ogni mio sforzo, dissipato nella ridicola farsa di me che cerco di dimostrarti che valgo qualcosa. Ma tu non lo saprai mai, non vuoi saperlo.

La realtà mi richiama a sè, il viaggio verso l'alto è finito e torno al mio posto, a centinaia di chilometri da tutto, a raccontare, da sola, quello che succede dall'altra parte.

martedì 20 marzo 2012

Unordered list

Elenco di cose che, malgrado tutto, hanno qualcosa in comune.


  • Imitare lo stile di un altro
  • Cercare il senso della vita su un motore di ricerca
  • Manuali di autostima
  • Trova la speranza nelle preghiere agli angeli dello zodiaco
  • Il segreto della confessione è inviolabile
  • Non riuscire a meritare 100 euro
  • Validazione dei css
  • Asservimento a un sedicente gruppo di rubacervelli per avere qualcosa di meglio da fare
  • Giacca-cravatta-tailleur-tacchi
  • Politica, politici, politicanti, politichese, polizia
  • Modelli di riferimento
  • Leggete i nostri insuperabili consigli su come trovare lavoro dopo i 50 anni
  • Le donne non fanno figli perché troppo occupate con la carriera
  • Generazione mille euro
  • Genio tutelare
  • Forze del disordine
  • Fiducia
  • Parlare incessantemente, fino allo sfinimento, della gioia
  • La mia delusione più grande mi costa 2 euro la settimana
  • "E' bella ma deve restare lì"
  • Consigli per la felicità: il miglior modo è rassegnarsi
  • Dipendenza dalla droga
  • Un inutile rischio
  • Rimorso o rimpianto
  • Comprare oggetti costosi per essere persone serie
  • "Osservo da una collina distante il mondo come il Paese dei Balocchi, pieno di colori e vita. Devo privarmene per raggiungere un fine migliore."
  • Combattere sempre per ottenere il meglio/accontentarsi delle piccole cose che si hanno
  • Leggi di Murphy applicate alla speranza
  • Bambini gratis
  • Incessante sensazione di nausea
  • Enciclopedia dei miti da sfatare
  • Contratto di lavoro. Contrarre una malattia.
  • "Fai finta di essere me. Guarda con i miei occhi"
  • Solo chi ama senza speranza conosce il vero amore
  • Scrivere libri, partecipare a trasmissioni televisive come opinionisti accreditati, organizzare conferenze, spacciare per assolutamente vere opinioni personali
  • L'imprinting
  • Contenere un tic nervoso
  • A causa dell'empatia percepisco fin troppo spesso la falsità, lo sforzo ipocrita delle persone che vogliono sempre sembrare positive, accompagnandosi con lunghe prediche a chi non fa lo stesso. Mi dispiace ma io vedo, so che il vostro è un tentativo disperato perché soffrite ma siete anche confusi e senza orientamento. Avete deciso di aggrapparvi a un'illusoria ancora di salvezza, buon per voi se vi fa stare bene ma io non vi credo.
  • Inibire il senso di fame
  • Life coaching
  • Tranciare le gambe a qualcuno per tenerlo sotto controllo
  • L'unico vizio che mi concedo
  • Persone che vendono organi per tamponare debiti
  • Business model
  • Non c'è una sola cosa che abbia senso
  • Trovare la verità nelle frasi delle canzoni
  • Un pezzo d'Italia che se ne va
  • Qualsiasi cosa non piaccia è riconducibile a un difetto genetico
  • Aforismi di guide spirituali di ogni tempo e ogni latitudine
  • Lanciare i dadi
  • A che punto del processo si è verificato l'evento critico?
  • Idea diffusa che i bambini siano spensierati e dimentichino immediatamente un dolore
  • Fare delle scelte
  • Partecipi della missione comune dell'umanità
  • ...

lunedì 12 marzo 2012

Benedetta parla col suo nume tutelare

Benedetta, malgrado il nome, si sentiva molto sfortunata e dopo l'ennesima vicenda critica, a metà della sua vita, non sapeva più che pesci pigliare.
L'atrio della stazione di domenica mattina era sempre desolato, mancavano i pendolari della settimana. Una piccola fermata di provincia, lontana dal centro abitato, mal collegata con un autobus poco frequente. Malandate panchine disposte a ferro di cavallo, pareti imbiancate di vernice e ingrigite d'incuria e degrado. Un tabellone degli orari penzolante e illeggibile, nessun altro utile avviso, uno sportello per le informazioni chiuso da anni, non un'ombra di umanità. Non un rumore di treno in arrivo.

'Cosa ci fai qui a quest'ora?' si domandava, stretta nelle braccia, seduta nella panchina centrale, con la faccia per terra, il respiro affannoso, un tremore diffuso e il battito del cuore che prometteva male. Era il preludio della tempesta.

"Cosa ci fai qui a quest'ora?" ripeté un'altra voce che non era la sua. "Non alzare lo sguardo- continuò- non mi guardare finché non avrai il coraggio di guardare dentro te stessa"
"Va bene- rispose lei ansimando faticosamente- resto così, ma ti prego, aiutami..."
"Lo sai degli ebrei?"
"Che c'entrano gli ebrei adesso?"
"Quando furono liberati dalla schiavitù in Egitto... vagarono per quarant'anni su un pezzo di strada che richiedeva dieci giorni di cammino. Il loro dio li lasciò girare su se stessi perché non volevano imparare la lezione."
Benedetta, dondolava la testa tra un sospiro e l'altro, a volte soffiando per espellere l'aria che si ingolfava nella gola, stringeva sempre più le dita intorno alle braccia senza accorgersi di farsi male. "E qual'era la lezione da imparare?" bisbigliò.
"Io ti posso anche aiutare ma tu devi riuscire a badare a te stessa, non puoi sempre aspettare la manna dal cielo. Una volta te la faccio piovere ma poi basta, devi pensarci da sola."
"Ah, ecco... mi mancava. Questa volta sei venuto fino qui con la manna, poi sparirai per sempre... anche tu."

Benedetta era bianca in volto, cerulea, le dita si fecero blu alle estremità. "Hai freddo?" domandò lui.
"Muoio di freddo. Muoio di tutto. Fa freddo, un freddo cattivo"
"È  perché non mangi. Che motivo hai?"
"Scommetto che lo sai già."
"Ammettilo. Dillo tu, se no non ne esci da questa stazione"
Benedetta in tre sospiri rumorosi raccolse tutta l'aria di cui aveva bisogno e disse: "Sì, è cominciato tutto a undici anni, ero sempre stata magrissima qualunque cosa mangiassi e non ci pensavo, poi è arrivata la pubertà e non mi ero accorta di essere ingrassata finché gli altri non iniziarono a prendermi in giro. Di lì fu una vita intera di digiuni, abbuffate, ginnastica distruttiva... ingrasso e dimagrisco, torna sempre il periodo che loro chiamano anoressia ma non ha mai interessato nessuno, mi commentano solo quando ingrasso."
"Ma questa volta che motivo avevi?"
"Il solito: volevo rendermi più attraente. Prima... ora lo faccio per morire"

In un momento lame di luce attraversarono la sala come riflesse da un vetro in movimento ma non si udì il motore di un'automobile ne il cigolio di una finestra. Che il sole guizzasse sulle pareti da sé?
"Io ti conosco da sempre- iniziò a narrare lentamente lui- mi ricordo tutto di te fin dal primo giorno. So che mi vedevi ma non potevi dirlo."
"Sai bene come andò, io non posso parlare, non ho mai potuto farlo"
"Così credi... in realtà parlavi. Ti tenevi ben nascoste le cose essenziali ma di tutto il resto avevi sempre da dire. È adesso che hai smesso. È più il tempo che passi muta che quello che respiri. Fai più rumore con l'aria che con le parole. La gente si spaventa di te."
"La gente è sempre spaventata di me- ringhiò a denti stretti Benedetta- perchè non si domandano... perchè non si accorgono che io mi devo difendere? Hanno sempre le armi sferrate anche quando vengo in pace, disarmata di tutto, mi accolgono a spade sguainate e poi si lamentano se ricorro al fuoco!"
"Non ce l'hanno la forza di capire, a loro sembra normale perchè alla tua stessa maniera si difendono. Siete stati tutti abituati alla guerra. Probabilmente pensate che faccia comodo, non si sa mai."
"I nostri genitori e nonni l'hanno vissuta, certamente crederanno che possa succedere sempre e ci hanno educati ad essere pronti a combattere"
"Questo lo hai capito, bene... adesso puoi darmi la mano, sono qui in pace" così dicendo protese le mani bianche verso di lei che, sempre senza alzare la testa, le afferrò fra le sue gelide e bluastre, lasciando la stretta sulle braccia dove il sangue ricominciò a circolare. Erano calde le mani di lui e si sentì confortata come non si sentiva da molto tempo, da anni, o forse non lo aveva mai veramente provato.

"Di cosa stai morendo?" le domandò con tono leggermente ironico come a sminuire la pesantezza della sua condizione.
"Di tutto, te l'ho detto... precisamente questa cosa la chiamano 'Attacco di panico' o 'Crisi d'ansia', non fa differenza, io ci soffro da un po'" ma mentre si spiegava sentì che la tachicardia rallentava e il tremore si dissipava. "Grazie di essere qui- disse trattenendo a stento le lacrime- ti ho aspettato tanto!"
"Ci sono sempre stato ma non posso intervenire così ogni volta. Questa volta è speciale perché hai fatto un passo di troppo e io vorrei cercare di riportarti indietro. Ma devi essere tu a decidere, io posso solo darti delle indicazioni."
Benedetta esitò riflettendo velocemente sugli ultimi vaghi ricordi che aveva della mattina prima di arrivare lì e notò con sorpresa che non ricordava chiaramente quasi niente tranne la sensazione di dolore fortissima che aveva allo stomaco mentre camminava spedita con qualcosa fra le mani e poi un'oppressione violenta alla gola. Il pensiero la fece sobbalzare dalla panchina ma ebbe la fermezza di chiudere gli occhi per non guardare l'altro. "L'ho fatto?" chiese.
"Sì."
"E allora... dovrebbe essere tutto finito. Che ci faccio qui a quest'ora?"
"Sei rimasta qui perché devi capire e solo dopo deciderai da che parte andare. Ma fino ad allora non ti muoverai da questo posto."

Lasciò trascorrere lunghi attimi di silenzio incredula di aver infine compiuto quel gesto che meditava da anni ogni volta che si sentiva ferita. "Ma... cos'è che devo capire?"
"Domandati perché lo hai fatto"
"Ma lo so. Per lui... anzi, non solo per lui, per tutti. Tutti c'entrano qualcosa. Mi ricordo tutto adesso. Mi ricordo di quando ero bambina, in balia di una povera pazza..." troncò le parole in una risatina sommessa.
"Cosa ricordi? Avanti, sforzati"
"Mi picchiava sempre, non potevo fare un solo gesto che non la mandasse in bestia. Avevo sempre i segni dei suoi schiaffi addosso. E le sue urla nelle orecchie. Ricordo che le altre persone se ne accorgevano e la rimproveravano ma lei si risentiva ancora di più, ero la causa delle sue frustrazioni. Non sopportava ne le privazioni ne il sentirsi dire che non era una buona madre.
Una volta, all'asilo, mi venne a prendere. Ero nel giardino insieme a una maestra che mi stava facendo ripetere la poesia per lei che avrei dovuto recitare. Mamma, oltre la recinzione, non lo capiva e continuava a esortarmi di uscire dal giardino ma io volevo continuare con la mia poesia. Solo quando terminai mi decisi ad andare verso di lei e in quel momento mi piovve in faccia una pietra che aveva lanciato un altro bambino. Allora mia madre corse dentro, verso di me e mi mollò un forte ceffone in testa gridando che avrei dovuto andare via quando lei mi aveva chiamato così non sarebbe successo... non glie la volevo più recitare la poesia!" Benedetta ridacchiò ancora ma non poté più trattenere il pianto.
"Te lo sei ricordato. E tuo padre?"
Tra i singhiozzi rispose: "Lui si vantava... si vantava di non aver mai alzato le mani su di me... facile! Ordinava a mia madre di darmi uno schiaffo! Diceva 'Guarda tua figlia cosa sta facendo, glie lo molli uno schiaffo?!' e lei obbediva avvelenata d'odio per essere stata ripresa, come se fosse colpa sua..."
"Lei era una donna sottomessa e succube del marito"
"Sì, lui era un mostro! E quando a scuola mi facevano di tutto lui non mi credeva, diceva che erano fantasie e ha lasciato che mi massacrassero... solo quando hanno danneggiato le cose che mi aveva comprato è andato a protestare!"

Benedetta piangeva silenziosamente coprendosi gli occhi con le mani di lui strette nelle sue.
"Adesso hai le idee più chiare? Adesso lo capisci da dove arriva il tuo senso di abbandono e la tua mania di aggrapparti agli altri quando ti porgono una briciola d'affetto?"
"Ma che potevo fare? La mia testa mi dice di fare così, non ce l'ho mai fatta a comportarmi diversamente eppure ci ho provato! Lo sai tu quante volte e in quanti modi!"
"Sì, ci hai provato."
"Lo sai, c'eri anche tu... per me tutti loro sono stati la mia famiglia, ogni volta che trovo degli amici finisco a viverci insieme come se fossimo tutti fratelli e prima o poi qualcuno mi riempie il cuore più degli altri... ma tutte le volte sembra che io gli abbia fatto del male, forse l'ho soffocato di attenzioni o forse mi comporto come quando ero bambina e non lo gradisce. Ma giuro che tutto volevo tranne che fargli del male. Com'è possibile ferire una persona amandola?"
"Tu non ci vedi proprio. Sei cieca."
Benedetta non riuscì ad aggiungere altro, ogni ulteriore commento sui suoi errori era solo una sferzata più profonda alla sua ferita.
"E adesso sei anche muta. Perché hai smesso di parlare?" insistette lui.
"Non possooooo!- gridò lei- Mi ha detto NO in tutte le salse, si è trincerato dietro il rifiuto prima ancora che io potessi dire una sola parola e poi ha continuato a chiedermi cosa mi piacesse di lui! È matto forse? È stupido? No, è solo vanitoso, gli piace sapere cos'ha di bello ai miei occhi ma io non glie lo dirò mai!"
"È solo l'ultimo della lista- osservò lui- si è sempre ripresentata la stessa identica situazione. Questo non ti suggerisce nulla?"
"Certo, ovvio... lo stesso copione, per molte volte. Che mi dovrebbe suggerire? Se non sono riuscita a cambiare fino adesso non ci riuscirò mai, ce l'ho nel sangue, nelle ossa e nella carne di essere così... sapevo che non sarebbe andata mai diversamente, avrei trascorso un altro lungo periodo di lutto e poi avrei trovato altri amici e tutto sarebbe ricominciato, nuove persone, stesse dinamiche, stessa fine, nuovo lutto... per questo ho deciso di finire. Non ha senso vivere così."
"Non hai assolutamente altro di cui preoccuparti?"
"No. Non ora. Ho fatto di tutto per essere accettata, ho studiato, ho preso i titoli, ho lavorato, ho dimostrato a tutti che posso vivere da sola e occuparmi degli altri, ho risolto i loro problemi, mi sono resa disponibile, mi sono occupata di me stessa senza chiedere niente a nessuno, convinta che dare un'immagine di me forte e indipendente mi avrebbe dato il diritto di stare tra loro. Invece non ha fatto alcuna differenza. Ero sola lo stesso. Io odio essere sola! Ti prego... resta con me... parlami, fammi compagnia... sii presente nella mia vita!"

Benedetta lo implorava senza guardarlo, stringendosi con forza le mani di lui al viso. Era il suo nume tutelare, lo spirito che l'accompagnava nel cammino della vita e che mille volte aveva invocato senza mai ricevere risposta. Ed ora si era fatto vivo, nel momento in cui lei aspettava un convoglio inesistente nella stazione della morte.
"Ascoltami- proseguì lei riprendendo fiato e allentando la tensione delle parole- come faccio a promettere che non lo farò più? Lo vedi che è più forte di me, ho trascorso anni in terapia per liberarmene ma non ha funzionato. Non posso decidere di smettere. Sarebbe come quando da bambina recitavo l'Atto di Dolore calcando forte le parole 'Propongo col tuo santo aiuto di non offenderti mai più' perché volevo essere aiutata da quel dio e non lasciata sola nel turbine dei peccati di cui mi macchiavo e da cui non riuscivo a riemergere. Sapevo che sarei andata all'Inferno, non avevo speranza, ero nata sporca e irrimediabilmente cattiva."
"Perché credevi questo?"
"Me lo dicevano loro. Mio padre e mia madre, mi odiavano perché ero la loro disgrazia... me lo diceva la suora che mi faceva da maestra elementare quando sbagliavo a scrivere. Me lo diceva il mio primo fidanzato, diceva che ero il suo cancro... mi chiamava 'Il mio cancretto'. Sono stata la pena di molti eppure ce l'ho messa tutta per comportarmi bene. Cosa vogliono ancora da me? Perché non si accontentano mai?!"
"Quante volte avresti dovuto alzare la voce... il tuo miglior pregio è anche il tuo peggior difetto: il rispetto degli altri. Per il quale ti sei privata di quello per te stessa."
"Non potevo parlare. Dovevo stare zitta."
"Avresti dovuto però..."
"NO! Mio padre diceva che non dovevo parlare!" urlò Benedetta piena di rabbia.
"Alzi la voce con me, adesso? Non ti servirà."
"Lo so, scusami. Non sei certo tu a meritarlo e comunque ormai è tardi"
"Tu non parli perché sai che non saranno d'accordo con te, perché le opinioni prestano il fianco alle critiche, perché non ami discutere e perché il tuo senso di giustizia ti impone di non sindacare le idee degli altri, quindi trovi del tutto inutile sprecare il fiato. È nobile da parte tua ma nessuno può saperlo, l'unica cosa che percepiscono è che tu hai paura di parlare."
Lei mormorò: "Lo pensassero pure, meglio che litigare su una cosa che non ha verità assoluta"
"Non riesci a capire che gli altri vogliono sentirti parlare per farsi un'idea di te e del mondo che celi?"
"Dici che è questo? Può darsi, non ci avevo mai pensato..."

Lui lasciò la stretta delle sue mani per cingerle il volto, le fece una carezza e disse: "Guardami"

giovedì 1 marzo 2012

La famiglia moderna

La tecnologia nella mia casa ha fatto ingresso alla stessa maniera di un tir guidato da un ubriaco in un viottolo di campagna. Tutta colpa dei miei genitori che hanno approcciato la faccenda in modi diametralmente opposti ed entrambi estremi, dunque deleteri.

Mio padre è sempre stato appassionato di tecnologia, fondamentalmente è una vendetta contro la sua infanzia povera nel dopoguerra. A scuola fu sempre piuttosto asino, non riuscì a terminare neanche la prima media e lo mandarono a lavorare a calci a soli tredici anni a far da apprendista in una ditta di insegne luminose. Così s'incamminò lungo la strada della nobile, quanto infausta per noialtri, arte dell'elettronica.
Quando avevo solo tre o quattro anni in casa nostra c'era già il computer, erano i primi anni '80 e i cosiddetti "calcolatori elettronici personali" erano delle scatolette da collegare alla televisione le cui principali funzioni, alla fin fine, erano i videogiochi.

Direte, allora, che sia stato un merito questa sua passione... no, aspettate. Adesso viene la parte critica.
Mio padre più che appassionato è sempre stato ossessionato dall'idea di rendersi la vita più comoda per mezzo della tecnologia, col risultato del tutto contrario di renderla a tutti più complicata. Come? Invadendo la casa di attrezzi di dubbia utilità.

Mia madre, invece, è sempre stata una sempliciotta restia a cambiare le sue abitudini: lei non ne vuol proprio sapere di adeguarsi ai tempi. Lei il Telegiornale lo chiama ancora Giornale Radio.
Ma la cosa più snervante è la sua netta opposizione alle comodità, quelle vere, non quelle di mio padre... che significa? Avete presente le confezioni di cartone munite di linguetta per aprirle facilmente e con ordine? Ecco, mia madre no e immancabilmente apre le scatole sfondandole con un coltello a partire dagli angoli superiori. Si faceva una volta. Una volta che non le è passata più.

Come pensate che possa vivere io in una casa dove impunemente si frammischiano Chindogu e Anarco-primitivismo?

Vado in cucina a fare colazione. Non trovo più la mia tazza. Apro tutti gli sportelli, mi cadono addosso sacchetti lordi di grasso e polvere, abbandonati da anni sugli scaffali più inarrivabili... che c'è dentro? Delle teglie sagomate per hamburger. Mmmm... perchè non le usiamo? Ah, perchè non mangiamo hamburger, ecco! In effetti mio padre le aveva comprate per delle cotolette di patate precotte che aveva trovato al supermercato, provate una sola volta e poi cassate per sempre.
Frugo tra le vecchie bollette ammassate dietro le coppe da gelato d'acciaio anni '70 e ne esce fuori una mascherina taglia-mele, è un affare che spingendolo su una mela te la taglia a fette geometricamente regolari. Abbandonato a se stesso perchè mio padre non ha forza nelle braccia e si stancava a spingere sulle mele.

Ma dov'è la mia tazza?
Giro per la casa, sulla porta d'ingresso vedo un grosso pezzo di nastro da pacchi appiccicato a coprire lo spioncino... perchè? É opera di mia madre: le dava fastidio la luce che ci entrava attraverso. E che cos'è quell'impacco sbilenco sulla credenza? Oh, mi sembra di riconoscerlo, sì! E' un vaso di coccio, cioè, lo era... deve essersi infranto cadendo ma invece di incollarne i pezzi mia madre lo ha ricompresso nel medesimo nastro da pacchi. Giuro che se trovo così la mia tazza io impacchetto mia madre.

Entro in salotto. Ci dovrebbe essere un ampio tavolo da pranzo da otto posti, invece c'è un ampio ripiano di cose precipitate una sull'altra. Da mesi il nostro salotto è il laboratorio degli orrori di mio padre: diciamo che un sesto dello spazio, per la precisione il suo posto a capotavola, è stato risparmiato, delimitato dalla irremovibile tovaglia piegata in due e fissata da portatovaglioli, saliera+pepiera+formaggiera tutto-in-uno e dosatore di stuzzicadenti (te ne fa uscire uno alla volta). Il resto è sommerso sotto un mucchio di pezzi di computer, campeggia una stampante-scanner-fax-fotocopiatrice USB stand alone, ci metti un foglio dentro e ti fa una copia a colori senza collegarla al computer. Sopra ci sta appoggiato il cadavere del suo predecessore: un fax-fotocopiatrice-telefono cordless-wireless, la sua colpa fu di stampare solo in bianco e nero. Di telefoni, del resto, non sentiamo la mancanza, ne abbiamo 6, tutti cordless con segreteria telefonica. Perchè mai giacciono inutilizzati? Perchè ciascuno di noi ha almeno un cellulare (mio padre quattro) e se qualcuno telefona al fisso di casa può essere solo una noia (telemarketing, mia zia, ecc...)

Non trovo ancora la mia tazza. Mi sto innervosendo e ho fame.
Improvvisamente sento un gemito affaticato, mi accorgo che la porta-finestra del balcone è aperta. Mi affaccio e trovo mia madre che, col viso corrugato dal dolore, spezza a mano gli spessi rami di una pianta rampicante sfondandosi le dita "Mamma, perchè non usi quelle?" le chiedo scorgendo le cesoie piantate nella terra (le ha usate per scavare). Risponde seccata "Oh, e lasciami stare, non mi va di usarle!" Me ne vado, non prima di sorprendere la mia tazza, ai piedi del vaso, impiegata a raccogliere bulbi marciti e foglie secche. Stamattina faccio colazione con un bicchiere.

Mi preparo un cappuccino espresso con la macchina super accessoriata che mio padre ci ha imposto di usare, ultima di una serie di cinque dal 1994 a oggi. Io preferivo la cara caffettiera moka e scaldarmi il latte in un pentolino sul fornello ma se mi vede a farlo non la finisce più di lamentarsi che "abbiamo le comodità perchè non le usiamo, dico io? che li spendiamo a far tutti questi soldi?" ah, boh... non lo so.
Afferro un cucchiaino nello scolaposate a 10 scomparti, zeppo di attrezzi da cucina: il mega coltello per il pane con leva regolabile per definire lo spessore della fetta, il filtro per il tè in foglie a chiusura ermetica con impugnatura a molla, la paletta pela-grattugia-ortaggi con tre differenti forature per diverse tipologie di taglio (julienne, fette, scaglie), un po' di mestoli di legno di cui uno solo evidentemente utilizzato e gli altri ancora intonsi ma anneriti dal marciume dell'umido, una pinza per raccogliere l'insalata e una simile per gli spaghetti, mai confonderle se no mio padre s'incazza.
Il cucchiaino presenta evidenti tracce di incrostazioni. L'ha lavato mia madre, anzi solo bagnato: lei sostiene che per posate e bicchieri il sapone non vada sprecato, basta una sciacquata e via. Lasciamo perdere, io vado al bar a fare colazione.

Dovrei dunque vestirmi, nel mio armadio non trovo i pantaloni ne alcune magliette e della biancheria. Faccio mente locale, ricordo che erano stesi la settimana scorsa e dovrebbero essere asciutti ormai.
"Mammaaaaaa! Dov'è la mia roba?" "Oh, e non mi scocciare! Apri gli occhi e trovala!"
Dopo intensa ricerca noto che su un ripiano dell'armadio, accanto alle confezioni ancora sigillate di contenitori per abiti traspiranti anti polvere, anti muffa e anti tarme, c'è un sacco nero di quelli per l'immondizia chiuso alla meno peggio con il nastro da pacchi. Ho un grosso sospetto. Lo apro squarciandolo con le mie nude mani (come avrebbe fatto mia madre) e indovinate cosa ci trovo dentro? I miei pantaloni, le mie magliette, la mia biancheria e anche quella di mio padre, il pigiama di quando facevo le medie e una divisa da lavoro di quattro taglie più stretta di chiunque abiti a casa mia.

Voglio scappare. Mi vesto, chiudo a chiave la mia stanza per scongiurare invasioni e mi avvio lungo il corridoio. Passo davanti alla libreria di casa: tutti i libri sono infilati con la costa contro il muro e l'apertura verso l'esterno, cosicchè non si sappia che libri siano. É stata mia madre, ha fatto le pulizie ieri e li ha rimessi dentro così, non le frega niente dei titoli tanto quei libri nessuno li legge.

Imbocco la porta, la intravedo intenta a legare con lo spago mucchi di telecomandi abbandonati da mio padre sulle poltrone, incrocio lui sul pianerottolo con una grossa scatola in braccio "Ehy, guarda che ho comprato! Una macchina per fare il pane in casa, così non regaleremo più i soldi a quello zozzo del fornaio!" Balbetto"T-torno su-subito..." e corro giù per le scale.

Sono fuori. Si respira. Mi nascondo in un bar. Ordino caffè e cornetto al banco. La tazza e il cucchiaino sono puliti, la macchina espresso fa solo quello che deve fare. Mi rilasso in questo limbo di aromi e musichette di sottofondo, interrotto improvvisamente dagli squilli del cellulare. É mia madre "Che per favore, prima di rientrare, mi compri un rotolo di nastro da pacchi?"

martedì 21 febbraio 2012

Il Centro per l'Impiego

"Perchè non passi all'ufficio di collocamento? Quando lo trovi lavoro se no?" ha detto mio padre. Illuso.

Mi iscrissi al Collocamento quando ancora bisognava andare a timbrare il libretto di lavoro, poi un giorno telefonarono per dirmi che il Collocamento non esisteva più e dovevo andare a registrami al Centro per l'Impiego. Non serviva più timbrare, non c'era più libretto, avrebbero chiamato loro... mai ricevuta una chiamata.

Comunque esco, devo andare a comprare una cosa e l'ufficio è di strada.
Guidano male qui, per attraversare sulle strisce devi pregare. Passo davanti la fermata dell'autobus, una decina di persone mute e con la faccia stanca aspetta dritta con i piedi nel fango. Non c'è una pensilina, fa freddo, non c'è orario: l'unico collegamento con l'esterno è l'autobus extraurbano che viaggia per tutta la provincia con frequenza di almeno mezz'ora, poi dipende dal traffico o se l'autobus si rompe prima di arrivare. Prima o poi uno si ferma.
Mi guardano come fossi una stranezza. Ho pena per loro come loro ne hanno per me.

Eccomi. Do' un'occhiata agli avvisi affissi sulla porta a vetri, ci sono annunci di lavoro? No, solo corsi d'italiano per stranieri, comunicazioni tecniche, orari, date, cambiamenti di regole. Nessun lavoro.
"Scusi... io non aggiorno più la mia registrazione e non sono mai stata chiamata da allora, cosa devo fare?"
"Prego, si rivolga allo sportello 5"
"Devo prendere il numero?"
"No, vada tranquillamente"
Del resto non c'è nessuno, non ho neanche telefonato prima per un appuntamento ma ci sono solo io, 4 impiegati che vagano e 10 sportelli vuoti.

Mi faccio aggiornare la scheda, stesso nome, stesso indirizzo di residenza e domicilio... abito ancora con i miei genitori. Sì, ho lavorato in questi anni, un paio di lavori non posso dichiararli perchè erano praticamente in nero... lo so, di certe cose non bisognerebbe neanche parlarne in questo posto ma in Italia nessuno è disposto ad assumere lecitamente chi non ha esperienze pregresse e se non mi fossi adattata al lavoro sommerso sarei ancora alla ricerca di prima occupazione a 32 anni. Ho avuto un solo contratto in vita mia, lo scorso luglio, della durata di 6 mesi, anche piuttosto discutibile... mi avevano promesso che se mi fossi comportata come dicevano loro certamente sarebbe seguito un contratto migliore. Invece alla fine dell'anno è scaduto e non me lo hanno rinnovato. Nemmeno a tutti gli altri pseudo-dipendenti col mio stesso contratto. Lo dicono tutti, c'è la Crisi...

Ah, e poi mi sono anche laureata, due anni fa, con il massimo dei voti. La tipologia della mia laurea non è contemplata nel database del Centro per l'Impiego, così ne mettiamo una generica che ci somiglia.
Compiliamo tutte le mie competenze tecniche e linguistiche, mi fa vedere le pagine web dove andrò a cercarmi lavoro da sola e mi stampa i fogli.
"Il Centro per l'Impiego mi comunicherà opportunità lavorative... per telefono? Via mail?"
"No no, devi cercarti gli annunci da sola, vedi i requisiti e poi ti candidi"
E' lo stesso che cercare lavoro su un giornale di annunci.

Getto un'occhiata alle offerte visualizzate sul terminale, ci sono solo lavori che io non posso fare per requisiti indispensabili: iscritti alle liste di mobilità, disabili, categorie protette, residenti in altre località. In che maniera io sarei considerata nel mercato del lavoro? Sulla ricevuta c'è scritto DISOCCUPATO IN CONSERVAZIONE ORDINARIA. Ma che vuol dire? Mi conservo bene?

Mi danno molte informazioni su come dovrei cercare lavoro "Ti registri a questo sito e anche a quest'altro... se torni domattina c'è il collega che ti registra per il lavoro all'estero... registrati ai database dell'università" mi sembra di essere una videocassetta, mi registro e registro e registro ancora.
"E poi, se vuoi, puoi frequentare i nostri incontri di orientamento al lavoro: ti spieghiamo come cercare lavoro, come scrivere il curriculum, come affrontare il colloquio..."
Ah beh, sono solo 12 anni che passo da un lavoro all'altro, sicuramente deve essere perchè ancora non ho imparato a scrivere il mio curriculum (che, per amor di cronaca, aggiorno ogni 3 mesi in 4 versioni differenti, 2 formati di file e 2 lingue). Parteciperò senz'altro.

Me ne vado. Devo comprare il sapone e magari anche il dentifricio. Vado in un grande magazzino ai confini della città perchè costa molto meno dei negozi. La strada è impervia, senza passaggi pedonali, attraversa punti di ingorgo stradale in cui gli automobilisti diventano pazzi, ma è l'unica via. In prossimità delle strisce nessuno si ferma, devo fare ampi segnali, loro inchiodano e gesticolano innervositi contro di me. All'ingresso del parcheggio c'è una fossa che si è riempita d'acqua e fango per la pioggia, quindi devo arrampicarmi su dei mattoni rotti messi a mo' di gradino da qualcun altro, facciamo tutti così se no non si entra.

Questo magazzino è un labirinto di scatole impilate e cartelli che piovono dall'alto. Ci trovi di tutto a prezzi stracciati. Ci vengo abitualmente con gli spiccioli contati. C'è sempre folla. Le signore pensionate si riempiono i carrellini di detergenti, sacchi neri, ricambi per la caffettiera, carta igienica, calze. Mi domando come faranno a tornare a casa su quella strada disastrata. Qui se non hai la macchina non te la passi bene, ma è una cosa che costa e lì fuori c'è un gran caos che te ne farebbe pentire.
Ho speso in tutto €1.98, ci sto a posto per un mese.

Riprendo la strada di casa, scavalco mattoni rotti e pozze di fango, passo davanti alla fermata dell'autobus e ci sono le stesse persone di prima. Non è ancora passato. Cala il sole e la temperatura anche. Avete pena per me come io ne ho per voi.
Una ragazza della mia età, o forse dovrei dire una donna, trattiene a stento la sua bambina esausta che scalpita. Penso che io non ne ho di questi problemi. Penso che io posso andarmene in giro a qualsiasi ora, fumare per strada, vestirmi male e pettinarmi come capita, non devo rendere conto a nessuno. Penso che una volta ogni due settimane ricevo comunicazione che qualche mia ex compagna di scuola o qualche mio amico di gioventù ha avuto o sta per avere figli, mi mandano le foto, mi invitano ai battesimi. Io non ci vado.  Non posso avere di questi problemi, vivo ancora con i miei genitori in un paese in decadenza dove non contemplano la tipologia del mio mestiere. Non ho più lavoro, un'altra volta, non ho soldi.

Non ho neanche un fidanzato o qualcosa di simile: ci vogliono i danari, ci vuole che non puoi abitare qui per avere una relazione, ci vuole che devi essere disponibile a fare cose con gli altri. Gli altri, si aspettano sempre che tu offra loro qualcosa, non sopportano che tu sia un peso, per quante gentilezze dicano. E' educazione, è un modo italiano di fare.

Bella roba il modo italiano di fare: devi scervellarti per far vedere che sei sistemato, che hai un bel lavoro, che hai una bella casa, che hai tante belle cose, insomma devi solo fare bella figura anche se questo costa più di quello che puoi permetterti e non intendo solo in termini monetari.
Per dirne una, tutte le aziende, dalla più prestigiosa alla più miserabile, si presentano come "leader nel proprio settore" e pretendono di mantenere questo millantato status sfruttando lavoratori come somari, mal pagati, senza contratto o con contratti fasulli e condizioni di lavoro pessime. Perchè in realtà soldi non ne hanno ma devono far credere di sì. Modus italiani. Si dice così? Bella figura...

Io non ho impegni di nessun tipo. Sono libera. E dicono che posso fare tutto quello che voglio. Ma c'è la crisi, lo dicono tutti.

venerdì 30 dicembre 2011

Storia di Maddalena

In questo racconto ho tralasciato la forma perchè si tratta del resoconto di un fatto e non volevo alterarlo con la dialettica.

Erano gli anni '70 in tutto il mondo tranne nel villaggio di pescatori dell'isola dove da un po' approdavano mercantili stranieri che non si erano mai visti prima. Arrivavano dal continente, dalla Grecia, Iugoslavia, Albania e scaricavano a terra, più che casse di merci, brutti ceffi da cui le donne si guardavano bene.

Maddalena si arrampicava sui sassi irti della scogliera, i capelli lunghi sconvolti dal vento le frustavano il viso ma non se li raccoglieva mai, facendo infuriare sua madre che cercava invano di imporle la disciplina.
Non c'era mai nessuno a quell'altezza anche se il sentiero era visibilmente battuto. Il mare era leggermente mosso e si schiantava lungo le rocce. La prua della lunga e bassa nave appariva dal fianco del promontorio verde che torreggiava a poche decine di metri dalla spiaggia. Aveva sulla chiglia parole scritte in un alfabeto che lei non conosceva.

Dopo una mezz'ora era scesa giù al paese, curiosa di vedere la nave da vicino. Il maresciallo dei carabinieri a quell'ora se ne stava volentieri al bar del porto con la scusa di dare un'occhiata all'insolito movimento di navigli degli ultimi mesi. Se la vide passare davanti in direzione del molo e "Signorina- la fermò- non ci vai a scuola?"
Maddalena, poco propensa agli scambi verbali, lo guardò senza rispondere.
"Che dice tua madre?" le domandò ancora.
"Che la devo aiutare- spiccicò appena lei come risposta- a scuola ci vado quando torna mio padre"
Maddalena non sapeva dove era finito suo padre, credeva che fosse uscito in barca e ci rimanesse per un paio di giorni come era uso nei periodi di pesca. Il maresciallo la fissava muto, non se la sentiva di dirle che suo padre era disperso in mare e probabilmente non sarebbe mai più tornato.
"Vai a casa- la esortò- se stai qui non l'aiuti tua madre. E domani vacci a scuola."

Voltate le spalle senza dire niente, Maddalena riprese il cammino verso il mare, sparendo tra le casupole di pietra bianca allineate in faccia al porto. Voleva trovare la nave che aveva visto. Scendendo più avanti, dove il centro abitato si diradava e la terra diventava sempre più brulla, sul fianco del promontorio c'era un secondo porto mai usato dai pescatori che adesso era molto frequentato da queste grosse navi straniere. Ed eccola ormeggiata lì, la lunga, bassa nave dalla chiglia nera con scritte bianche in caratteri misteriosi. Le si piazzò davanti a scrutarla e non si accorse di non essere sola.

"Che guardi?" la sorprese una voce straniera.
Un uomo pallido con un maglione rosso acceso era alle sue spalle, gingillandosi tra le mani una sigaretta spiegazzata.
"Che c'è scritto?" gli domandò lei.
"E' nome di padrone" la osservò dalla testa ai piedi, si infilò la sigaretta  in bocca, cacciò fuori dalla tasca dei pantaloni una scatola di fiammiferi e ne accese uno, portando la fiamma al viso, riparandola quanto possibile dal vento con le mani racchiuse a conca. Maddalena lo guardava in silenzio, per lei era insolito quel rituale: poche volte aveva visto delle sigarette tra i pescatori, amici di suo padre, era un prodotto raro e ci voleva una buona occasione per consumarlo.
"Tu vivi qui?" le domandò ancora.
Lei annuì.
"Quanti anni?"
"Quasi quattordici"
"Quanto?" chiese ancora, sollevando i palmi delle mani a indicare con le dita il numero dieci.
Maddalena usando le dita alla stessa maniera lo corresse: "No! Quattordici!"
Lui strinse gli occhi, corrugò la fronte: le era sembrata più piccola, non le avrebbe dato più di undici anni, forse per il vestito nero scolorito dal sole, tipico di quelle parti, i capelli selvaggiamente abbandonati e un'espressione acerba in viso.
"Tu lavori? Che fa qui?" chiese ancora lui.
"No, non ce l'ho il lavoro. Aiuto mia madre"
"Io ti faccio lavorare. Se tu vuoi c'ho lavoro!"
"E che devo fare?"
"Vieni con noi- disse indicando la nave- domani andiamo, mezzogiorno. Tu vieni?"
"Sì."
"Tu vedi , vieni..." le fece cenno di seguirlo. Le gli andò dietro, risalendo a ritroso tutta la strada che aveva fatto per arrivare sin lì.

"Come chiami? Tuo nome?" le aveva chiesto
"Sciacca Maddalena"
"Giacca..lena?" riepetè incerto lui non comprendendo la pronuncia di quel nome troppo lungo
"No! Maddalena... Ma-dda-le-na" lo scandì lei.
"Ma-dda-lena- ritentò annuendo- io Piotr"
"Come Pietro?"
"Va bene Pietro!" le disse accomodante. Nel frattempo erano giunti all'ingresso della pensione che si affacciava sul porto, una palazzina bianca ornata di lastre di marmo luccicante sui terrazzi.
Pietro le fece segno di entrare, non c'era nessuno nell'atrio e la guidò su per le scale che conducevano al primo piano. Si sfilò dalla tasca una chiave di ottone e la cacciò in una serratura. "Entra" le disse.
Maddalena, cauta, si avvicinò e restò impalata sulla soglia guardando dentro. Non aveva mai visto un albergo dall'interno. La stanza era molto pulita e scarna di mobilio, marmi grigi puntellati di nero circondavano le finestre da cui si vedeva il resto del paese e dietro il mare, c'era odore di muffa. "Entra!" le ripetè lui sfiorandole la spalla nel tentativo di spingerla "Che fate?!" lo fermò la voce della proprietaria.
Pietro, ritraendo la mano, farfugliò qualcosa. Maddalena fece un passo indietro.
"Questo è un posto rispettabile! La porti via da qui o chiamo i carabinieri!" sbraitò la donna indicando la ragazzina che si sentì accusata di qualcosa che non capiva.
Pietro sollevò le mani protestando nella sua incomprensibile lingua e tirò via Maddalena, indicandole di scendere dalle scale e andarsene da sola "Domani, mezzogiorno! Tu vieni?" le rammentò un'ultima volta. Lei fece cenno di sì con la testa e corse giù turbata per quanto era accaduto.

Maddalena scappò dalla pensione, via tra i viottoli a cercare riparo a casa, sconvolta dalla sensazione che qualcosa di brutto fosse successo per colpa sua ma senza consapevolezza di cosa.
Arrivata a poca distanza dalla casa, una baracca di legno in mezzo ad altre in cima al villaggio, scorse la ruvida figura di sua madre che l'aspettava sulla porta con in braccio uno dei suoi fratelli, l'ultimo nato, che piangeva per chissà cosa e tuttavia non riceveva alcuna attenzione. La madre era furibonda con la figlia, l'aspettava sull'uscio apposta per tirarle un ceffone. Maddalena aveva paura di quello sguardo perenne sul volto di sua madre, un volto scarno segnato da rughe, sormontato da aridi capelli ingrigiti e dominato da occhi blu normanni che la trafiggevano.
"Dove sei stata?!" le urlò. La ragazzina rimase impietrita a due metri dalla porta. "Vieni qui, entra!" le gridò ancora la madre e tentennando si fece avanti sapendo di non poter sfuggire al pesante schiaffo che le precipitò sulla testa, accompagnato da una pioggia di insulti. Maddalena corse piangendo a nascondersi sotto il letto, tra le grida degli altri due fratelli e della sorella, tutti più piccoli di lei, concitati dalla confusione.

Nel primo pomeriggio Maddalena e la sorella furono mandate al lavatoio con i panni. La bambina giocava con dei sassi raccolti mentre lei stava piegata con le mani nell'acqua fredda, circondata dalle altre donne che svolgevano la medesima mansione cantando e parlottando tra loro.
Strofinava i panni con rabbia, disprezzando tutte quelle faccende cui era costretta e pensava con orgoglio che il giorno dopo sarebbe partita con la nave di Pietro per lavorare lontano da quell'isola puzzolente e sarebbe tornata con tanti soldi da tirare in faccia a sua madre. E mentre fantasticava su tutto questo scorse sulla strada il maresciallo dei carabinieri che si toglieva il cappello verso qualcuno che arrivava in sua direzione e un istante dopo comparve la proprietaria della pensione. Una sensazione di  terrore l'assalì e chinò il capo sull'acqua sperando che non la vedessero. Strofinò con foga i poveri tessuti che aveva fra le mani nel tentativo di fare presto e andarsene di lì il prima possibile.

Il mattino dopo si comportò in casa come niente fosse, eseguì gli ordini in silenzio, col cuore carico di speranza perchè tutto stava per finire. "Va a prendere il pane" le disse la madre mettendole una manciata di monete in mano e lei uscì di casa con gli occhi bassi. Non andò mai al forno.
Maddalena si arrampicò sulla scogliera, guardò dall'alto la nave dalla chiglia nera a fianco del verde promontorio. Scese sul sentiero battuto, raggiunse il porto dove attraccavano le lunghe navi straniere e attese l'ora dell'appuntamento. Era arrivata con un certo anticipo e Pietro si presentò in ritardo ma lei non si mosse.
"Buongiorno, tu sei qui!" osservò lui ridendo.
Le fece cenno di seguirlo e l'accompagnò sul ponticello traballante che immetteva nel ventre della nave. Maddalena salì scalette incerte e attraversò piani e stretti corridoi. Era tutto sporco, arrugginito, puzzolente di marcio. Gli uomini della nave la guardavano senza troppa discrezione e mormoravano tra loro cose che lei non poteva capire.
Pietro le faceva strada, avvolto in quel brutto maglione rosso acceso, i capelli neri arruffati, la faccia pallida e l'andatura di un ubriaco. La fece entrare dentro uno stanzino e le disse di rimanere lì "Che ha portato?" chiese. Maddalena fece cenno di no con la testa. Lui insistette e lei estrasse dalla tasca le monete che le aveva dato sua madre per il pane, facendo intendere che era tutto quello che aveva con sè. Pietro allungò la mano e le prese i soldi, li contò e se li mise in tasca poi uscì e chiuse la porta. Istintivamente Maddalena vi si buttò contro cercando di aprirla ma era bloccata. Si sentì in trappola, la paura la pervase e iniziò a piangere.

Lo stanzino aveva le pareti rivestite in legno giallognolo e vi erano stipate scope, secchi, flaconi con etichette scritte in quell'alfabeto ignoto e un mucchio di sporcizia. Aveva delle finestrelle rettangolari strette che lasciavano entrare luce ma erano troppo in alto perchè lei potesse affacciarvisi.
Improvvisamente sentì uno scossone e tutto iniziò a dondolare. Maddalena capovolse un secchio, vi montò su e in punta di piedi cercò di scrutare oltre quelle finestrelle: tutto si muoveva, la nave era partita.
Ma non passò molto tempo che la porta si aprì improvvisamente e comparve Pietro con l'aria molto alterata che la sorprese così arrampicata a guardare fuori e l'afferrò senza delicatezza per farla scendere. La trascinò fuori, lei si dibatteva e protestava ma l'uomo era troppo forte perchè potesse liberasi dalla sua stretta. La condusse su un corridoio all'aperto, protetto dal vuoto solo da una sottile e precaria balaustra di ferro rugginoso. Maddalena guardò con orrore il mare che lambiva la chiglia della nave e scorse altre navi molto più piccole, tutte con gli stessi colori, che li circondavano. Udì parlare in italiano dai megafoni: erano i carabinieri e la guardia costiera e ordinavano all'equipaggio di fermarsi. Capì che erano lì per lei.

Pietro sbraitava nella sua lingua e la strattonava con violenza. Urlò qualcosa contro i militari e quando ebbero raggiunto la poppa della nave la sollevò di forza verso la balaustra. Maddalena urlava: "No! Non mi buttare, ti prego! Nooo!" e cercò disperatamente di aggrapparsi al ferro rugginoso. Ma non ebbe la forza di sostenersi e precipitò giù, verso l'elica che si avvicinava sempre più alla sua faccia.
Il mare era nero e freddo. Maddalena affondò in un inferno lento e silenzioso.

Per un attimo, sospinta dalla pressione, le sembrò di riemergere e vide in alto, in cima al ventre nero della nave, il maglione rosso, Pietro, appoggiato alla balaustra, che la guardava immobile mentre lei lo implorava di aiutarla e fu l'ultimo ricordo che ebbe della vita.

lunedì 19 dicembre 2011

41mila voci

Ho 43 anni e non dormo da 13 giorni.

Questa mattina ho preso il traghetto alle 8 e 37, un po' in ritardo sull'orario ma c'erano 2 guardie, c'erano... c'erano 2 guardie che fermavano dei ragazzi stranieri, a 1 gli facevano aprire lo zaino e controllavano tutti i vestiti. Poi non è successo niente. O io non me ne ricordo.

L'ultima volta che ho dormito ero a casa mia, nella mia città ed era quasi ora di pranzo, quindi erano quasi le 12 oppure quasi le 13, avevo tirato tardi e volevo dormire, era domenica, era il 27 di febbraio ma non sono sicuro. Non mi ricordo.
Ricordo che sono andato in cucina a prepararmi il caffè e poi lei ha urlato. Ricordo. Ricordo che urlava, ce l'aveva con me ma non ricordo per cosa. Ricordo che diceva che era colpa mia perchè dormivo sempre, diceva. Diceva che di me non poteva fidarsi, diceva. Il caffè si è bruciato sul fornello che ho dimenticato. Io ero distratto a sentire lei che urlava e poi la caffettiera è esplosa in aria.

Sul traghetto c'è sempre la stessa quantità di persone, sono circa 200, un po' restano sedute sotto, non glie ne frega niente di vedere il mare, altre siedono sopra ma non escono, guardano dai vetri. Invece io sono sul ponte, c'è il sole ma è freddo. A giorni arriva la primavera. Tra 7 giorni. Sono le 8 e 49, passa l'uomo col vassoio di tè, dice"çay!" forte, loro lo chiamano così il tè çay. E' buono, si può bere senza zucchero, costa 2 lire, equivalgono a 80 centesimi di euro. Qui lo bevono sempre, tutto il giorno, serve per ingannare il tempo. Noi altri fumiamo ma io credo che facciano meglio loro.

C'è una lama di sole che taglia le montagne all'orizzonte. I gabbiani sterzano vorticosamente intorno a noi, sembra che vogliano attraversare il ponte ma poi lo sfiorano e basta e tornano sù. Gridano. Pare che parlino tra loro ad alta voce. Pare che parlino di noi che stiamo qui a bere tè da 2 lire in questi 20 minuti che ci separano dall'altro lato del Bosforo. Sono 100 gabbiani, li ho contati ma non so quante volte ho perso il conto.

Lei diceva "pensi solo a dormire" e io ho risposto che potevo arrivare in capo al mondo e lei urlava, poi se ne è andata via e non l'ho più vista. Ho 43 anni, faccio il giardiniere, di solito curo le aiuole delle fabbriche nella nostra zona, hanno cespugli e alberi, non servono a niente che tanto loro producono schede elettroniche ma ci tengono all'immagine, anche in un paese sperduto dell'entroterra che campa solo di piccola industria e tutti gli abitanti sono operai e manovali che lavorano per loro, lavorano il giorno, tornano a casa per dormire la notte, poi ricominciano. Non c'è altro da fare. Io invece no, io so come divertirmi, vado al bar a fare l'aperitivo, discuto di calciomercato con il barista, a volte litigo con qualche vecchio che vuole saperne più di me. Vado anche al cinema, se esce un film nuovo, se vedo la pubblicità in televisione, vado a leggere la programmazione del cinema locale sul giornale. Ci vado una volta alla settimana, c'è sempre qualcosa di nuovo. Mi riempio di cose da fare.

Compro libri sulle bancarelle, costano 1 euro o 2 euro o 5 euro e 50, ci trovo romanzi di scrittori sconosciuti, non tanto belli, ma anche grandi opere, piene di pagine 500 pagine 800 pagine 1267 pagine, li porto a casa, li leggo prima di addormentarmi, li leggo sull'autobus, li leggo negli ultimi 15 minuti della pausa pranzo. Non ricordo l'ultimo libro che ho letto.

Da 13 giorni non dormo, io non dormo più da quella volta che mi ha detto "pensi solo a dormire, non posso fidarmi di te" e se ne è andata e non l'ho più vista. I primi giorni andava tutto bene, non avevo sonno, poi sono arrivati i dolori, ho tanti dolori, mi duole tutto, poi ho iniziato a dimenticare le cose più del solito, molto di più, 10 volte di più, ricordo solo numeri, numeri, numeri che corrono come cavalli. Ho detto "posso arrivare persino in capo al mondo" ed eccomi, scendo dal traghetto sulla sponda di Eminönü, sono lontano da casa, ho preso i biglietti, una borsa senza sapere che c'era dentro, i soldi alla rinfusa, comunque ho un bancomat ma non controllo mai il saldo, mi fanno paura i numeri, quei numeri non li voglio vedere, i numeri dei soldi, superiori a 2 lire, 80 centesimo di euro, non voglio parlare di soldi. non voglio dormire. Sono in capo al mondo, 1363 chilometri da casa, 91° di Azimuth, 16 gradi di temperatura, sono le 9 e 10 di mattina, è il 13 marzo, non mi ricordo l'anno.

Mi sento male ma no cedo. Non posso, ho detto che arrivavo in capo al mondo. Lei se ne è andata. Forse torna e non mi trova in casa. Peggio per lei. Magari piange. Non mi ricordo perchè se ne è andata. Urlava. Erano quasi le 12. Non mi ricordo che giorno è oggi. Vorrei chiederlo, non mi ricordo le parole. Non posso sedermi a bere il çay, se mi siedo mi addormento e io non voglio dormire. Io non penso solo a dormire.

Cammino, cammino, ho le idee poco chiare ma cammino. Mi guardano. Avrò certo una faccia curiosa, già che sono straniero e si vede, avrò certo una brutta faccia. Non parlano però. Oppure sono io che non li sento. Poco fa l'avevo sentito il muezzin dalla moschea, più d'uno, si sovrapponevano ma adesso non sento più niente.

Ho la nausea, ho provato a mangiare ma mi viene da vomitare. Urto delle persone. Mi volto per scusarmi e vedo che non sono persone. Ho urtato un animale, è nero ma non capisco che animale è. Non mi ricordo. Vedo un animale. Improvvisamente non c'è più, sono due uomini che mi parlottano contro ma non sento cosa dicono, comunque io non parlo la loro lingua.
Cammino, costeggio le moschee e i negozi di cianfrusaglie per turisti, non mi fermo mai, sono in capo al mondo da solo, non dormo da 13 giorni, mai una volta. Poi quell'animale nero che mi segue, sul marciapiede opposto, poi mi è davanti ma cammina con me, all'indietro. Non sento più niente, ho dolori dappertutto, 43 dolori, li ho contati.

Varco un portone, non so cosa sia, forse non dovrei entrarci, c'erano 2 guardie c'erano... alzavano le braccia ma io non sentivo. Sono entrato, l'animale nero mi precedeva, non so cosa voleva, parlava, muoveva le braccia, non voleva che entrassi ma io camminavo, con le scarpe e andavo dritto, oltre la transenna, dov'erano quelle persone che s'inginocchiavano, volevo inginocchiarmi anch'io, l'animale nero, le guardie, lei, 41mila voci in coro mi urlavano nella testa che pensavo solo a dormire ma non era vero, l'ho dimostrato, non ricordo come ma sono sicuro, perchè poi sono finito a terra e ho chiuso gli occhi e non mi sono mai più svegliato.