venerdì 30 dicembre 2011

Storia di Maddalena

In questo racconto ho tralasciato la forma perchè si tratta del resoconto di un fatto e non volevo alterarlo con la dialettica.

Erano gli anni '70 in tutto il mondo tranne nel villaggio di pescatori dell'isola dove da un po' approdavano mercantili stranieri che non si erano mai visti prima. Arrivavano dal continente, dalla Grecia, Iugoslavia, Albania e scaricavano a terra, più che casse di merci, brutti ceffi da cui le donne si guardavano bene.

Maddalena si arrampicava sui sassi irti della scogliera, i capelli lunghi sconvolti dal vento le frustavano il viso ma non se li raccoglieva mai, facendo infuriare sua madre che cercava invano di imporle la disciplina.
Non c'era mai nessuno a quell'altezza anche se il sentiero era visibilmente battuto. Il mare era leggermente mosso e si schiantava lungo le rocce. La prua della lunga e bassa nave appariva dal fianco del promontorio verde che torreggiava a poche decine di metri dalla spiaggia. Aveva sulla chiglia parole scritte in un alfabeto che lei non conosceva.

Dopo una mezz'ora era scesa giù al paese, curiosa di vedere la nave da vicino. Il maresciallo dei carabinieri a quell'ora se ne stava volentieri al bar del porto con la scusa di dare un'occhiata all'insolito movimento di navigli degli ultimi mesi. Se la vide passare davanti in direzione del molo e "Signorina- la fermò- non ci vai a scuola?"
Maddalena, poco propensa agli scambi verbali, lo guardò senza rispondere.
"Che dice tua madre?" le domandò ancora.
"Che la devo aiutare- spiccicò appena lei come risposta- a scuola ci vado quando torna mio padre"
Maddalena non sapeva dove era finito suo padre, credeva che fosse uscito in barca e ci rimanesse per un paio di giorni come era uso nei periodi di pesca. Il maresciallo la fissava muto, non se la sentiva di dirle che suo padre era disperso in mare e probabilmente non sarebbe mai più tornato.
"Vai a casa- la esortò- se stai qui non l'aiuti tua madre. E domani vacci a scuola."

Voltate le spalle senza dire niente, Maddalena riprese il cammino verso il mare, sparendo tra le casupole di pietra bianca allineate in faccia al porto. Voleva trovare la nave che aveva visto. Scendendo più avanti, dove il centro abitato si diradava e la terra diventava sempre più brulla, sul fianco del promontorio c'era un secondo porto mai usato dai pescatori che adesso era molto frequentato da queste grosse navi straniere. Ed eccola ormeggiata lì, la lunga, bassa nave dalla chiglia nera con scritte bianche in caratteri misteriosi. Le si piazzò davanti a scrutarla e non si accorse di non essere sola.

"Che guardi?" la sorprese una voce straniera.
Un uomo pallido con un maglione rosso acceso era alle sue spalle, gingillandosi tra le mani una sigaretta spiegazzata.
"Che c'è scritto?" gli domandò lei.
"E' nome di padrone" la osservò dalla testa ai piedi, si infilò la sigaretta  in bocca, cacciò fuori dalla tasca dei pantaloni una scatola di fiammiferi e ne accese uno, portando la fiamma al viso, riparandola quanto possibile dal vento con le mani racchiuse a conca. Maddalena lo guardava in silenzio, per lei era insolito quel rituale: poche volte aveva visto delle sigarette tra i pescatori, amici di suo padre, era un prodotto raro e ci voleva una buona occasione per consumarlo.
"Tu vivi qui?" le domandò ancora.
Lei annuì.
"Quanti anni?"
"Quasi quattordici"
"Quanto?" chiese ancora, sollevando i palmi delle mani a indicare con le dita il numero dieci.
Maddalena usando le dita alla stessa maniera lo corresse: "No! Quattordici!"
Lui strinse gli occhi, corrugò la fronte: le era sembrata più piccola, non le avrebbe dato più di undici anni, forse per il vestito nero scolorito dal sole, tipico di quelle parti, i capelli selvaggiamente abbandonati e un'espressione acerba in viso.
"Tu lavori? Che fa qui?" chiese ancora lui.
"No, non ce l'ho il lavoro. Aiuto mia madre"
"Io ti faccio lavorare. Se tu vuoi c'ho lavoro!"
"E che devo fare?"
"Vieni con noi- disse indicando la nave- domani andiamo, mezzogiorno. Tu vieni?"
"Sì."
"Tu vedi , vieni..." le fece cenno di seguirlo. Le gli andò dietro, risalendo a ritroso tutta la strada che aveva fatto per arrivare sin lì.

"Come chiami? Tuo nome?" le aveva chiesto
"Sciacca Maddalena"
"Giacca..lena?" riepetè incerto lui non comprendendo la pronuncia di quel nome troppo lungo
"No! Maddalena... Ma-dda-le-na" lo scandì lei.
"Ma-dda-lena- ritentò annuendo- io Piotr"
"Come Pietro?"
"Va bene Pietro!" le disse accomodante. Nel frattempo erano giunti all'ingresso della pensione che si affacciava sul porto, una palazzina bianca ornata di lastre di marmo luccicante sui terrazzi.
Pietro le fece segno di entrare, non c'era nessuno nell'atrio e la guidò su per le scale che conducevano al primo piano. Si sfilò dalla tasca una chiave di ottone e la cacciò in una serratura. "Entra" le disse.
Maddalena, cauta, si avvicinò e restò impalata sulla soglia guardando dentro. Non aveva mai visto un albergo dall'interno. La stanza era molto pulita e scarna di mobilio, marmi grigi puntellati di nero circondavano le finestre da cui si vedeva il resto del paese e dietro il mare, c'era odore di muffa. "Entra!" le ripetè lui sfiorandole la spalla nel tentativo di spingerla "Che fate?!" lo fermò la voce della proprietaria.
Pietro, ritraendo la mano, farfugliò qualcosa. Maddalena fece un passo indietro.
"Questo è un posto rispettabile! La porti via da qui o chiamo i carabinieri!" sbraitò la donna indicando la ragazzina che si sentì accusata di qualcosa che non capiva.
Pietro sollevò le mani protestando nella sua incomprensibile lingua e tirò via Maddalena, indicandole di scendere dalle scale e andarsene da sola "Domani, mezzogiorno! Tu vieni?" le rammentò un'ultima volta. Lei fece cenno di sì con la testa e corse giù turbata per quanto era accaduto.

Maddalena scappò dalla pensione, via tra i viottoli a cercare riparo a casa, sconvolta dalla sensazione che qualcosa di brutto fosse successo per colpa sua ma senza consapevolezza di cosa.
Arrivata a poca distanza dalla casa, una baracca di legno in mezzo ad altre in cima al villaggio, scorse la ruvida figura di sua madre che l'aspettava sulla porta con in braccio uno dei suoi fratelli, l'ultimo nato, che piangeva per chissà cosa e tuttavia non riceveva alcuna attenzione. La madre era furibonda con la figlia, l'aspettava sull'uscio apposta per tirarle un ceffone. Maddalena aveva paura di quello sguardo perenne sul volto di sua madre, un volto scarno segnato da rughe, sormontato da aridi capelli ingrigiti e dominato da occhi blu normanni che la trafiggevano.
"Dove sei stata?!" le urlò. La ragazzina rimase impietrita a due metri dalla porta. "Vieni qui, entra!" le gridò ancora la madre e tentennando si fece avanti sapendo di non poter sfuggire al pesante schiaffo che le precipitò sulla testa, accompagnato da una pioggia di insulti. Maddalena corse piangendo a nascondersi sotto il letto, tra le grida degli altri due fratelli e della sorella, tutti più piccoli di lei, concitati dalla confusione.

Nel primo pomeriggio Maddalena e la sorella furono mandate al lavatoio con i panni. La bambina giocava con dei sassi raccolti mentre lei stava piegata con le mani nell'acqua fredda, circondata dalle altre donne che svolgevano la medesima mansione cantando e parlottando tra loro.
Strofinava i panni con rabbia, disprezzando tutte quelle faccende cui era costretta e pensava con orgoglio che il giorno dopo sarebbe partita con la nave di Pietro per lavorare lontano da quell'isola puzzolente e sarebbe tornata con tanti soldi da tirare in faccia a sua madre. E mentre fantasticava su tutto questo scorse sulla strada il maresciallo dei carabinieri che si toglieva il cappello verso qualcuno che arrivava in sua direzione e un istante dopo comparve la proprietaria della pensione. Una sensazione di  terrore l'assalì e chinò il capo sull'acqua sperando che non la vedessero. Strofinò con foga i poveri tessuti che aveva fra le mani nel tentativo di fare presto e andarsene di lì il prima possibile.

Il mattino dopo si comportò in casa come niente fosse, eseguì gli ordini in silenzio, col cuore carico di speranza perchè tutto stava per finire. "Va a prendere il pane" le disse la madre mettendole una manciata di monete in mano e lei uscì di casa con gli occhi bassi. Non andò mai al forno.
Maddalena si arrampicò sulla scogliera, guardò dall'alto la nave dalla chiglia nera a fianco del verde promontorio. Scese sul sentiero battuto, raggiunse il porto dove attraccavano le lunghe navi straniere e attese l'ora dell'appuntamento. Era arrivata con un certo anticipo e Pietro si presentò in ritardo ma lei non si mosse.
"Buongiorno, tu sei qui!" osservò lui ridendo.
Le fece cenno di seguirlo e l'accompagnò sul ponticello traballante che immetteva nel ventre della nave. Maddalena salì scalette incerte e attraversò piani e stretti corridoi. Era tutto sporco, arrugginito, puzzolente di marcio. Gli uomini della nave la guardavano senza troppa discrezione e mormoravano tra loro cose che lei non poteva capire.
Pietro le faceva strada, avvolto in quel brutto maglione rosso acceso, i capelli neri arruffati, la faccia pallida e l'andatura di un ubriaco. La fece entrare dentro uno stanzino e le disse di rimanere lì "Che ha portato?" chiese. Maddalena fece cenno di no con la testa. Lui insistette e lei estrasse dalla tasca le monete che le aveva dato sua madre per il pane, facendo intendere che era tutto quello che aveva con sè. Pietro allungò la mano e le prese i soldi, li contò e se li mise in tasca poi uscì e chiuse la porta. Istintivamente Maddalena vi si buttò contro cercando di aprirla ma era bloccata. Si sentì in trappola, la paura la pervase e iniziò a piangere.

Lo stanzino aveva le pareti rivestite in legno giallognolo e vi erano stipate scope, secchi, flaconi con etichette scritte in quell'alfabeto ignoto e un mucchio di sporcizia. Aveva delle finestrelle rettangolari strette che lasciavano entrare luce ma erano troppo in alto perchè lei potesse affacciarvisi.
Improvvisamente sentì uno scossone e tutto iniziò a dondolare. Maddalena capovolse un secchio, vi montò su e in punta di piedi cercò di scrutare oltre quelle finestrelle: tutto si muoveva, la nave era partita.
Ma non passò molto tempo che la porta si aprì improvvisamente e comparve Pietro con l'aria molto alterata che la sorprese così arrampicata a guardare fuori e l'afferrò senza delicatezza per farla scendere. La trascinò fuori, lei si dibatteva e protestava ma l'uomo era troppo forte perchè potesse liberasi dalla sua stretta. La condusse su un corridoio all'aperto, protetto dal vuoto solo da una sottile e precaria balaustra di ferro rugginoso. Maddalena guardò con orrore il mare che lambiva la chiglia della nave e scorse altre navi molto più piccole, tutte con gli stessi colori, che li circondavano. Udì parlare in italiano dai megafoni: erano i carabinieri e la guardia costiera e ordinavano all'equipaggio di fermarsi. Capì che erano lì per lei.

Pietro sbraitava nella sua lingua e la strattonava con violenza. Urlò qualcosa contro i militari e quando ebbero raggiunto la poppa della nave la sollevò di forza verso la balaustra. Maddalena urlava: "No! Non mi buttare, ti prego! Nooo!" e cercò disperatamente di aggrapparsi al ferro rugginoso. Ma non ebbe la forza di sostenersi e precipitò giù, verso l'elica che si avvicinava sempre più alla sua faccia.
Il mare era nero e freddo. Maddalena affondò in un inferno lento e silenzioso.

Per un attimo, sospinta dalla pressione, le sembrò di riemergere e vide in alto, in cima al ventre nero della nave, il maglione rosso, Pietro, appoggiato alla balaustra, che la guardava immobile mentre lei lo implorava di aiutarla e fu l'ultimo ricordo che ebbe della vita.

lunedì 19 dicembre 2011

41mila voci

Ho 43 anni e non dormo da 13 giorni.

Questa mattina ho preso il traghetto alle 8 e 37, un po' in ritardo sull'orario ma c'erano 2 guardie, c'erano... c'erano 2 guardie che fermavano dei ragazzi stranieri, a 1 gli facevano aprire lo zaino e controllavano tutti i vestiti. Poi non è successo niente. O io non me ne ricordo.

L'ultima volta che ho dormito ero a casa mia, nella mia città ed era quasi ora di pranzo, quindi erano quasi le 12 oppure quasi le 13, avevo tirato tardi e volevo dormire, era domenica, era il 27 di febbraio ma non sono sicuro. Non mi ricordo.
Ricordo che sono andato in cucina a prepararmi il caffè e poi lei ha urlato. Ricordo. Ricordo che urlava, ce l'aveva con me ma non ricordo per cosa. Ricordo che diceva che era colpa mia perchè dormivo sempre, diceva. Diceva che di me non poteva fidarsi, diceva. Il caffè si è bruciato sul fornello che ho dimenticato. Io ero distratto a sentire lei che urlava e poi la caffettiera è esplosa in aria.

Sul traghetto c'è sempre la stessa quantità di persone, sono circa 200, un po' restano sedute sotto, non glie ne frega niente di vedere il mare, altre siedono sopra ma non escono, guardano dai vetri. Invece io sono sul ponte, c'è il sole ma è freddo. A giorni arriva la primavera. Tra 7 giorni. Sono le 8 e 49, passa l'uomo col vassoio di tè, dice"çay!" forte, loro lo chiamano così il tè çay. E' buono, si può bere senza zucchero, costa 2 lire, equivalgono a 80 centesimi di euro. Qui lo bevono sempre, tutto il giorno, serve per ingannare il tempo. Noi altri fumiamo ma io credo che facciano meglio loro.

C'è una lama di sole che taglia le montagne all'orizzonte. I gabbiani sterzano vorticosamente intorno a noi, sembra che vogliano attraversare il ponte ma poi lo sfiorano e basta e tornano sù. Gridano. Pare che parlino tra loro ad alta voce. Pare che parlino di noi che stiamo qui a bere tè da 2 lire in questi 20 minuti che ci separano dall'altro lato del Bosforo. Sono 100 gabbiani, li ho contati ma non so quante volte ho perso il conto.

Lei diceva "pensi solo a dormire" e io ho risposto che potevo arrivare in capo al mondo e lei urlava, poi se ne è andata via e non l'ho più vista. Ho 43 anni, faccio il giardiniere, di solito curo le aiuole delle fabbriche nella nostra zona, hanno cespugli e alberi, non servono a niente che tanto loro producono schede elettroniche ma ci tengono all'immagine, anche in un paese sperduto dell'entroterra che campa solo di piccola industria e tutti gli abitanti sono operai e manovali che lavorano per loro, lavorano il giorno, tornano a casa per dormire la notte, poi ricominciano. Non c'è altro da fare. Io invece no, io so come divertirmi, vado al bar a fare l'aperitivo, discuto di calciomercato con il barista, a volte litigo con qualche vecchio che vuole saperne più di me. Vado anche al cinema, se esce un film nuovo, se vedo la pubblicità in televisione, vado a leggere la programmazione del cinema locale sul giornale. Ci vado una volta alla settimana, c'è sempre qualcosa di nuovo. Mi riempio di cose da fare.

Compro libri sulle bancarelle, costano 1 euro o 2 euro o 5 euro e 50, ci trovo romanzi di scrittori sconosciuti, non tanto belli, ma anche grandi opere, piene di pagine 500 pagine 800 pagine 1267 pagine, li porto a casa, li leggo prima di addormentarmi, li leggo sull'autobus, li leggo negli ultimi 15 minuti della pausa pranzo. Non ricordo l'ultimo libro che ho letto.

Da 13 giorni non dormo, io non dormo più da quella volta che mi ha detto "pensi solo a dormire, non posso fidarmi di te" e se ne è andata e non l'ho più vista. I primi giorni andava tutto bene, non avevo sonno, poi sono arrivati i dolori, ho tanti dolori, mi duole tutto, poi ho iniziato a dimenticare le cose più del solito, molto di più, 10 volte di più, ricordo solo numeri, numeri, numeri che corrono come cavalli. Ho detto "posso arrivare persino in capo al mondo" ed eccomi, scendo dal traghetto sulla sponda di Eminönü, sono lontano da casa, ho preso i biglietti, una borsa senza sapere che c'era dentro, i soldi alla rinfusa, comunque ho un bancomat ma non controllo mai il saldo, mi fanno paura i numeri, quei numeri non li voglio vedere, i numeri dei soldi, superiori a 2 lire, 80 centesimo di euro, non voglio parlare di soldi. non voglio dormire. Sono in capo al mondo, 1363 chilometri da casa, 91° di Azimuth, 16 gradi di temperatura, sono le 9 e 10 di mattina, è il 13 marzo, non mi ricordo l'anno.

Mi sento male ma no cedo. Non posso, ho detto che arrivavo in capo al mondo. Lei se ne è andata. Forse torna e non mi trova in casa. Peggio per lei. Magari piange. Non mi ricordo perchè se ne è andata. Urlava. Erano quasi le 12. Non mi ricordo che giorno è oggi. Vorrei chiederlo, non mi ricordo le parole. Non posso sedermi a bere il çay, se mi siedo mi addormento e io non voglio dormire. Io non penso solo a dormire.

Cammino, cammino, ho le idee poco chiare ma cammino. Mi guardano. Avrò certo una faccia curiosa, già che sono straniero e si vede, avrò certo una brutta faccia. Non parlano però. Oppure sono io che non li sento. Poco fa l'avevo sentito il muezzin dalla moschea, più d'uno, si sovrapponevano ma adesso non sento più niente.

Ho la nausea, ho provato a mangiare ma mi viene da vomitare. Urto delle persone. Mi volto per scusarmi e vedo che non sono persone. Ho urtato un animale, è nero ma non capisco che animale è. Non mi ricordo. Vedo un animale. Improvvisamente non c'è più, sono due uomini che mi parlottano contro ma non sento cosa dicono, comunque io non parlo la loro lingua.
Cammino, costeggio le moschee e i negozi di cianfrusaglie per turisti, non mi fermo mai, sono in capo al mondo da solo, non dormo da 13 giorni, mai una volta. Poi quell'animale nero che mi segue, sul marciapiede opposto, poi mi è davanti ma cammina con me, all'indietro. Non sento più niente, ho dolori dappertutto, 43 dolori, li ho contati.

Varco un portone, non so cosa sia, forse non dovrei entrarci, c'erano 2 guardie c'erano... alzavano le braccia ma io non sentivo. Sono entrato, l'animale nero mi precedeva, non so cosa voleva, parlava, muoveva le braccia, non voleva che entrassi ma io camminavo, con le scarpe e andavo dritto, oltre la transenna, dov'erano quelle persone che s'inginocchiavano, volevo inginocchiarmi anch'io, l'animale nero, le guardie, lei, 41mila voci in coro mi urlavano nella testa che pensavo solo a dormire ma non era vero, l'ho dimostrato, non ricordo come ma sono sicuro, perchè poi sono finito a terra e ho chiuso gli occhi e non mi sono mai più svegliato.

sabato 26 novembre 2011

Un essere umano qualsiasi

Un giorno sulla Terra nacque un bambino che non era un essere umano qualsiasi.
I suoi genitori non sospettarono niente e gli diedero un nome molto comune, Andrea, perchè significa semplicemente "Uomo".
Andrea appena nato aveva già consapevolezza del Mondo, era cosciente di essere vivo e intuiva di avere una missione. Non piangeva spesso, sapeva che si sarebbero presi cura di lui e già dai primi giorni di vita si impegnò ad allenare il suo corpo appena nato per acquisire i giusti movimenti.
Gli dei videro questo prodigio e ne ebbero timore: il novello Ercole dimostrava un potere vitale enorme, si capiva che da adulto avrebbe dominato il Mondo e così, non essendo gli dei onnipotenti, ma qualcosa potevano pur farla, escogitarono come unico rimedio al potenziale devastante di questo semidio, la più bieca delle inibizioni: la timidezza.

Andrea a dieci giorni di vita improvvisamente cambiò: non ebbe più certezza che qualcuno l'avrebbe accudito e iniziò a piangere ogni volta che voleva qualcosa, anche solo un po' di coccole dalla sua mamma. Andrea non fu più quieto e silenzioso di notte perchè temeva che il dio del sonno, Ipnos, non lo avrebbe più fatto svegliare. Andrea non allenò più il suo corpo e assunse i movimenti incerti di qualsiasi neonato perchè ebbe paura che i suoi genitori si accorgessero che era "strano". Andrea, il semidio, iniziò allora a recitare la parte dell'essere umano.

A un anno di vita Andrea capiva perfettamente la lingua degli adulti ma si esprimeva solo a versetti e paroline accennate per non dare nell'occhio. Fu iscritto all'asilo nido insieme a tanti altri bambini ignari della loro stessa esistenza e li osservava e studiava per poi imitarli. Non riusciva a camminare bene, come gli altri, aveva smesso di provarci prima del tempo. Partecipava ai loro giochi banali annoiandosi molto solo per non essere allontanato.

A tre anni Andrea sapeva leggere ma fece finta di niente finchè non iniziò a frequentare la prima elementare.
Minerva, dea della sapienza disse: "Potrebbe sembrare un bambino prodigio ma in realtà è molto di più, i suoi genitori sarebbero costretti a mandarlo in una scuola speciale che non possono permettersi" e Giunone, dea del matrimonio e protettrice delle madri, aggiunse: "Sua madre dovrebbe lasciare il lavoro per seguirlo perchè nessun altro si prenderebbe la briga di farlo, diverrebbe sua schiava e sarebbe ingiusto" così, per volere delle dee, Andrea tenne ben segreta la sua intelligenza: sbagliò i compiti di proposito, si sforzò di peggiorare la sua calligrafia e di nascosto, nell'ora di ginnastica, fingendo di andare in bagno, strusciava il suo grembiule pulitissimo nell'erba del campo della scuola per far credere che avesse giocato a calcio con gli altri. In realtà Andrea non ci giocava a calcio: avrebbe potuto essere un campione, come in ogni altro sport, imparava prestissimo le regole ed elaborava strategie vincenti ma per la maledizione impostagli dagli dei si vergognava a farsi vedere in gioco dagli altri. Così guadagnò l'infamia di incapace nello sport e nei giochi di gruppo.

A dodici anni Andrea conosceva tre lingue straniere, apprese ascoltando la musica e guardando le televisioni internazionali. Comprava di nascosto, risparmiando la paghetta elargita da suo padre, opere di letteratura straniera in lingua originale. Talvolta, all'uscita di scuola faceva un salto al mercato del suo quartiere in cui c'erano molti ambulanti arabi e li ascoltava discorrere tra loro e imparando ogni singola parola. Lo stesso fece ad una cena con i compagni di classe al ristorante cinese. Un giorno, vedendo all'ospedale un sordo che si esprimeva nella lingua dei segni, comprese ciò che stava comunicando e si scoprì padrone di quel linguaggio al punto di usare spesso gesti anzichè parole senza accorgersene.

Andrea se la cavava egregiamente con le scienze, aveva già assimilato tutto il libro di chimica (e compiuto con successo degli esperimenti) nel primo mese di scuola superiore, risolveva problemi di matematica come passatempo quando si annoiava, conosceva a memoria le aperture e le trappole degli scacchi, sapeva a menadito vari linguaggi di programmazione e un centinaio di giochi di prestigio.
Mercurio, dio della sapienza occulta, dell'alchimia, dei ladri, dei viaggiatori e dei giocolieri, osservò: "Questo ragazzo conosce tali segreti che potrebbe ricattare chiunque, manomettere macchinari e produrre veleni. Ciò non è bene per un essere umano" e per volontà del dio, ad Andrea venne una grande paura di essere considerato un "secchione" e non fece altro che nascondere le sue competenze. Faceva scena muta alle interrogazioni, non partecipava mai a giochi complicati, fingeva di non conoscere la risposta degli indovinelli e prese a parlare come un buzzurro di periferia per mischiarsi agli altri.

Andrea da adolescente possedeva già una grande saggezza e sapeva da tempo qual era il senso della vita. Un giorno, forse per i pruriti puberali, si stancò di fare sempre la parte dell'idiota e decise di dare una lezione al suo compagno di banco bullo: "Non ha senso vivere alla tua maniera- gli disse- non otterrai mai il rispetto degli altri ma solo la paura di essere picchiati e non sarà un onore, no! Ti ridurrai al livello di una bestia!" per tutta risposta l'altro ragazzo gli sferrò un pugno in faccia sbraitando: "Ma senti 'sto stronzo! Fa il grandone adesso... vediamo se con questo impari a rispettarmi!"
Il dio della guerra, Marte, in quel momento notò che Andrea avrebbe potuto reagire con la forza di cento guerrieri: "Lo ucciderebbe, non sarebbe una battaglia onorevole ma solo una vigliacca tragedia" e per evitare il peggio ordinò alla sua seguace Pavor, la dea della paura, di frenare il suo spirito battagliero. Andrea non osò più dire una parola buona a nessuno, iniziò a temere le risse, ebbe paura dei bulli della scuola e di qualunque altro ragazzo un po' più grosso di lui. Andrea divenne per tutti un codardo.

Pavor non lo lasciò solo un attimo, per il resto della sua vita gli iniettò nel sangue il siero malevolo del terrore e dovette averci preso gusto a sfidare un semidio perchè a lungo andare esagerò estendendo le paranoie di Andrea a qualsiasi situazione in cui si sarebbe dovuto esporre.
Andrea non riuscì più a mantenere sani rapporti di amicizia, temeva orribilmente il giudizio degli altri, non reagiva alle provocazioni, fuggiva, si nascondeva, taceva. Andrea perse quasi l'uso della parola a diciotto anni.

Andrea imparò a scrivere con entrambe le mani in entrambi i versi, divenne un provetto giocoliere, leggeva gli spartiti ed era in grado di comporre musica. Avrebbe potuto suonare vari strumenti. Per un compleanno lo zio gli regalò una chitarra convinto che tutti i giovani ambissero a strimpellare qualche canzone melensa sulla spiaggia. Invece Andrea prese sul serio quell'arte e sognò spesso di diventare una rock star. Non fosse che per il sangue ammalato dalla dea persecutrice si vergognò sempre di suonare in presenza di qualcuno, di intonare una nota, di essere al centro dell'attenzione su un palco di fronte alle aspettative di un pubblico. Andrea mollò la chitarra e la musica, non ebbe mai più il coraggio di suonare e anche i rari tentativi di tornare sui suoi passi finivano in una inspiegabile paralisi alle mani, una voce che si affievoliva e un vuoto di memoria implacabile. "Tanto meglio- commentavano gli dei della musica, da Apollo a tutto il suo seguito- avrebbe un tale successo e una tale vena creativa da non lasciare possibilità a nessun altro e noi non possiamo permetterlo"

Il giovane uomo che diventava manifestava già un grande fascino. Andrea sapeva tutto dell'amore, del sesso, delle relazioni, intuiva i desideri delle persone e desiderava molto anche lui. Venere, dea dell'amore, stringendo il figlio Cupido tra le braccia e volgendo lo sguardo preoccupato a Eros, dio dell'amore carnale, dichiarò: "Se si rendesse conto del suo ascendente... se mettesse in pratica le sue arti amatorie tutti si innamorerebbero di lui, uomini e donne, tutti lo vorrebbero per sè... ma lui non potrebbe accontentare tutti e lascerebbe nel Mondo centinaia di cuori infranti e follia di desideri insaziati" e in accordo i tre dei fecero in modo che Andrea si imbarazzasse molto riguardo all'amore. Ebbe grandi difficoltà ad approcciare una relazione e le poche instaurate terminarono con forti rancori e un'arida solitudine.

All'università Andrea non ebbe più le idee tanto chiare: studiava moltissimo ma non si presentava mai agli esami per la paura di essere bocciato. Non aveva amici, si sentiva fuori posto in tutte le attività comuni. Le ragazze le guardava a distanza e non ci provò mai neanche una volta a rivolgere la parola a qualcuna che gli piacesse. Ci mise il doppio del tempo previsto per laurearsi e finì con l'accettare un lavoro squallido dopo mesi e mesi di infruttuosa ricerca.

Andrea si sentiva un fallito, un uomo qualsiasi senza nessuna ambizione ne capacità, disilluso su tutto e in estenuante attesa della morte. Thanatos, dal canto suo, si negava per dispetto.
Andrea dipingeva benissimo ma nella sua stanza c'erano solo tele bianche sotto strati di polvere, tubetti di colore ormai indurito, fogli di carta ingialliti con migliaia di schizzi che non si tradussero mai in qualcosa di concreto.
Andrea aveva un talento per la scrittura ma lasciò incompiuti (spesso al primo capitolo) una decina tra romanzi e poemi.
Andrea non riusciva a cambiare la carta da parati ammuffita. Andrea portava sempre gli stessi vestiti. Andrea ammirava il sole del mattino e non aveva coraggio di uscire di casa.
Andrea, da un bel pezzo, aveva imparato il modo di comunicare con gli dei ed era al corrente della sua maledizione ma non ne conosceva il motivo.
"Abbandonami Pavor" pregava. Quella, invece, si era talmente abituata al suo compito di tormentarlo che non lo ascoltava neppure "Oh... abbandomani Pavidiade!" la implorava esausto.
A peggiorare le cose intervenne il dio del timor panico, il fauno Pan, che tutti gli dei fuggivano. Pan osservava da anni la storia del semidio Andrea ridotto a una larva e volle metterci la sua parte. Andrea prese a soffrire di ansia, attacchi di panico, incubi e talvolta allucinazioni.

Andrea si sentiva devastato nell'animo e nel corpo. La percepiva quell'esplosione potente di vita che covava dentro di lui senza trovare mai sfogo, era consapevole di poter fare grandi cose e non riuscirne nessuna. "Dei, perchè mi fate questo?" pregava. Gli dei non rispondevano alle sue suppliche, ne avevano paura: dargli ascolto equivaleva a riconoscere la sua semidivinità e ciò andava evitato.
Una sola dea, impietosita, si presentò a lui: si esprimeva nel linguaggio dei segni, quello che aveva imparato tanti anni prima in un ospedale. Disse di chiamarsi Tacita, ma il suo primo nome era stato Lara e fu madre dei Lari. Giove le mozzò la lingua perchè parlava troppo, spingendola negli inferi e rendendola così dea del silenzio e dei segreti. Ora Tacita volle proprio rivelare ad Andrea il segreto della sua prigionia. Andrea, il semidio, seguì il guizzare delle sue mani che disegnavano il significato delle parole che lei non poteva pronunciare. "Ah, ho capito...- sussurrò Andrea- E che devo fare per liberami?"

Gli ultimi suoi anni Andrea li visse come un essere umano qualsiasi senza nessun potere, nessuna particolare capacità, poche nozioni. Di contro non aveva più paura.
Aveva degli amici, il giovedì andava al cineforum e partecipava ai dibattiti sul film, la domenica prestava servizio volontario alla mensa dei poveri. Molte persone avevano stima di lui, lo abbracciavano, ne parlavano bene. C'era anche una donna che l'amava.
Andrea dimenticò il senso della vita e insieme molte cose che un tempo aveva saputo. L'unica considerazione al riguardo, per lui fu che era molto meglio così.

giovedì 10 novembre 2011

Le lenzuola matrimoniali

Piero disfaceva le valige e buttava la roba un po' alla buona nei cassetti come fosse in albergo, sapeva che avrebbe lasciato la casa molto prima del previsto e non ci teneva più all'ordine.
Sfilava le lenzuola da cambiare e ci metteva quelle nuove, matrimoniali, che gli aveva dato sua madre. Erano quelle del corredo dei suoi genitori che non si usavano più da anni benchè lei dormisse ancora nel letto coniugale e suo padre su una branda in salotto. A Piero facevano schifo le lenzuola dei suoi genitori ma nella stanza che aveva affittato c'era un divanoletto a due piazze e non aveva lenzuola sue che andassero bene.

A Piero dava la nausea l'idea di dover tornare alla casa di famiglia. Era necessario, adesso che sua madre era sola e anziana qualcuno doveva badarla. Sua sorella non ne era in grado, studiava ancora e forse aveva intenzione di sposarsi.

Piero gettava sul grande tavolo da pranzo mazzi di scartoffie, i preventivi dell'impresa funebre, i documenti di chiusura dell'assicurazione, quelli per la chiusura del conto bancario, le fotografie per la lapide, l'ultima cartella clinica. Si alzava la polvere dal piano, il tavolo non era mai stato usato da che era lì: in un mese e mezzo avrebbe voluto invitare gli amici a cena più volte... ma che amici? Alberto era andato a studiare a Milano e forse partiva per l'Erasmus in Norvegia, Giuseppe era andato a vivere con la sua fidanzata e non si faceva più sentire, Marco parlava troppo e diventava facilmente noioso, non lo si poteva invitare da solo. Con tutti gli altri aveva perso i contatti da tempo, da quando aveva lasciato l'università.

Così il tavolo da pranzo era rimasto inutilizzato, troppo bello per servire solo da ripiano per la carta. La stessa fine facevano i piatti ancora imballati nella credenza. In frigorifero i barattoli aperti per una sola porzione andavano a male, il formaggio ammuffiva, il pane s'induriva. Perchè i negozi non vendono monoporzioni per chi vive da solo?

Suo padre faceva sempre una spesa esagerata, aveva la cossiddetta "sindrome della guerra", la paura di restare senza mangiare anche in un'epoca di sovrabbondanza. Era soprattutto quando passavano periodi di ristrettezze economiche che, paradossalmente, eccedeva con gli acquisti. Diceva: "Quando ti mancano i soldi la prima cosa che devi procurarti è da mangiare o puoi restare senza all'improvviso". Piero non approvava affatto quell'idea, tutte le volte le scorte di suo padre giacevano dimenticate nella dispensa, scadevano, marcivano e riempivano la casa di insetti.

Sua madre cucinava dalla mattina alla sera, non si capiva dove trovava il tempo. Preparava porzioni eccessive, metà finiva sempre nel secchio. Aveva letteralmente terrore che il marito si lamentasse di aver mangiato poco e per non sbagliare faceva sempre troppo. Ma tanto il marito si lamentava lo stesso, non gli piaceva mai niente, aveva una una critica pronta per ogni piatto che le strillava comodamente dal salotto, dove mangiava lui, alla cucina dove mangiava lei.

Piero e sua sorella si dividevano tra un tavolo e l'altro raccogliendo improperi, insulti, maledizioni che rendevano amarissimi i loro bocconi. L'ora del pasto era l'ora del litigio. Piero detestava la cucina di sua madre e ancor più detestava le lamentele di suo padre.
Nella nuova casa non mangiava quasi mai, nella solitudine non poteva consumarsi un rituale sociale come il mangiare.

Anche il divanoletto a due piazze era inutile. Con chi l'avrebbe mai condiviso nel poco tempo che gli restava lì dentro?
Tutte le sere si fumava una sigaretta, guardava le pareti, pensava se fosse il caso di appendere un calendario ma poi ci rinunciava. Il lampadario a gocce di cristallo era da pulire ma non gli interessava più, nessuno se ne sarebbe accorto. Piero spegneva la lampada sul comodino e nel buio si sentiva oppresso da quelle lenzuola troppo grandi, sporche, dei suoi genitori.

L'indomani mattina era in chiesa per le esequie. Ogni dettaglio era squallido e falso. L'ignoranza e il provincialismo fanno sì che anche il più ostinato oppositore politico e anticlericale abbia paura a non affidare il suo funerale ai preti "A me non ne frega niente della Chiesa - diceva suo padre - però a non fare un vero funerale mi pare brutto". Pareva brutto. Ma cosa? Chi si sarebbe sdeganto della bruttura? Piero era sdegnato innanzitutto per il drappello di parenti che non si vedevano più da quando i suoi si erano sposati (alcuni neanche li conosceva), piangenti e desolati, che offrivano le condoglianze con sofferta umiltà. Piero non versava una lacrima, voleva solo che la messinscena finisse presto.

Sua madre non riusciva neanche ad alzarsi dalla panca quando i passi della messa lo imponevano. Era china sulle sue lacrime. Pensare che quattro giorni prima aveva lanciato tanti di quegli auspici di morte che quasi pareva l'avesse ammazzato lei. No, in realtà era stata la crisi respiratoria che si minacciava da anni. Suo padre non riusciva a respirare, gli mancava sempre il fiato, non ce la faceva a tirare su casa le buste della spesa, non faceva le scale neanche per il primo piano. Però per litigare con la moglie e successivamente sfogarsi sui figli, il fiato non gli mancava mai. Un fatto curioso.

Piero assisteva disgustato al tetro spettacolo parentale. Si domandava che avessero da piangere, loro e la madre e anche sua sorella, che singhiozzava sorretta dal fidanzato. Che c'era da piangere? Lo avevano odiato tutti e Piero non riusciva ad elogiare una sua sola qualità.

Conclusasi la tumulazione tutti gli intervenuti si dispersero. Piero riportò madre e sorella a casa e andò a sdraiarsi nel letto singolo di quella che era stata la sua stanza e che lo sarebbe stata di nuovo di lì a breve. Guardava il lampadario da pulire, i ripiani impolverati, il calendario dell'anno prima rimasto abbandonato, l'orologio fermo da chissà quanto. Tornare a casa era una sconfitta. Ci aveva provato a conquistare la sua indipendenza e aveva ottenuto solitudine.

Non riuscendo a riposare si diresse verso il salotto. La branda era rimasta mezza disfatta dall'urgenza del ricovero, appoggiata al mobile dove giacevano le foto del matrimonio di trentacinque anni prima: pessimi vestiti, orribili capigliature, due facce per nulla convinte. Cosa si erano sposati a fare? Piero non capiva l'utilità del matrimonio, gli sembrava solo un contratto commerciale. E tale si era rivelato, poichè i suoi genitori non avevano mai divorziato per ragioni economiche.

A sua sorella la madre aveva sempre consigliato di non sposarsi ma lei si era convinta che la sua vita coniugale sarebbe stata migliore perchè aveva le idee più chiare di sua madre e non avrebbe vissuto quall'inferno di odio terminato solo con la morte. A lui nessuno aveva mai detto niente ne in un senso ne in un altro, forse perchè era maschio. Suo padre una volta ci aveva provato a lamentarsi con lui della sessualità ormai negata dalla moglie e Piero, inorridito, non ne volle mai più sapere.

martedì 8 novembre 2011

Pesce Palla

Questa scena si svolge più o meno nel 2006 e resta solo nella memoria di chi ha il coraggio di tenercela, del resto sono solo due persone a viverla ed entrambe, dopo, vorranno sopprimerla per sempre ma non è sicuro che ci riescano.

Questa scena si svolge su una terrazza invasa dal vento, all'inizio d'autunno, dove nessuno va mai e infatti solo una di quelle due persone ci tornerà anni dopo per la seconda volta.

Questa scena si svolge in un momento complesso per la vita di tutti e costringe una di quelle due persone a mettere in discussione la sua esistenza e fare una scelta. E' l'altra persona che sembra spingere perchè questa scelta sia fatta eppure sembra anche che non vi riponga poi tanto interesse. Ciò costituisce un paradosso.

Qualche minuto su questa terrazza ventosa, nascosta agli sguardi, accessibile per vie impervie e il palcoscenico della vita precipita, tutti i ruoli perdono presa e si confondono, le maschere s'infrangono rivelando altre maschere, il copione è stravolto e sebbene il passo sia falso è anche l'unico da fare.

In un tempo molto breve la messinscena è teminata.

In un tempo non molto lungo ma che pare infinito s'inscenano repliche mai del tutto fedeli all'originale che tuttavia s'aggrappano con artigli al filo conduttore della storia. Necessaria per quanto squallida.

Questa scena si conclude su quella terrazza dove nessun altro ha mai più messo piede e c'è una persona sola. Ad oggi non sappiamo se l'altra sia sopravvissuta.

domenica 30 ottobre 2011

(Indi)Pendenza

Quando si cammina su un sentiero di montagna ci si abitua alla pendenza.
Anche quando si viaggia in metropolitana o in nave. Per quanto lungo sia il viaggio, il corpo riesce a trovare un equilibro da sè.

Ma non quando si vive in una casa che pende da una parte.
Qui avviene un fatto curioso: la nostra testa sa che un pavimento sta in piano e non lo vuole proprio accettare che possa essere storto. Così il corpo vuole comportarsi come se tutto sia regolare e dopo un po' ne risente.

Capita, quindi, che a uscire di casa, dove le superfici ritrovano i propri equilibri, tutto sembri un po' più strano. La testa gira, il sangue ci balla dentro come il vino in una botte che rotola giù da un pendìo, le gambre tremano e le sicurezze vengono tutte a mancare.

Allora si comincia a stare bene solo in luoghi precari: in piedi sui mezzi pubblici, di corsa nelle strade inclinate, persino i macchinari da palestra sembrerebbero strumenti di relax.

La Torre di Pisa per me non è più una grande attrazione, dentro casa mia sono già un bel monumento per turisti curiosi.

Desideravo una casa dritta ma soprattutto desideravo l'indipendenza e per averla ho accettato di compromettere una certa rettitudine di cui potevo vantarmi.
I miei rapporti con le persone s'inclinano e dunque s'incrinano.
Le mie idee non hanno più un punto fermo.
Il mio corpo sfida la gravità e tutto mi si para da un'altra angolazione, direi circa 20°.

Tutto di-pende e ha la sua direzione e il suo verso, come un vettore buttato lì in una qualche dimostrazione di geometria analitica. Non ho niente da dimostrare, io, che la mia direzione non la so e il mio verso cambia troppo spesso.

Il ciarlare dei gabbiani mi ricorda una canzone di quelle elettroniche che farebbe da sottofondo perfetto nella mia stanza storta, ad evidenziarne l'assurdità come fossimo in un quadro surrealista: io sul mio divano che parlo con me stessa di cose molto profonde e il fumo della sigaretta ondeggia su un piano inclinato. Sembra la scena di un film di David Lynch.

E adesso, che siedo su una poltrona adagiata su un pavimento orizzontale in una stanza dritta, il cervello mi ondeggia come un mare in tempesta e provo un forte vuoto. Più forte ancora, però, è la delusione... delusione per la fiducia mal riposta, per le speranze lasciate in bilico, per il sentiero impervio su cui m'incammino.

mercoledì 7 settembre 2011

Diario di un viaggio non ancora iniziato

Se partire è un po' morire allora sto dando i primi segni di cedimento, questa mattina con un dolore ancora misterioso. Ma si chiarisce con le ore che trascorro a riflettere, di pari passo con le azioni meccaniche del mio lavoro.

Volevo scappare, lo ammetto. La mia idea del Grande Viaggio altro non è che il piano di fuga da una condizione che potrebbe verificarsi. Un viaggio tutto proiettato nelle ipotesi.

E' la prima cosa che ti viene in mente di fare nel caso in cui ti trovi improvvisamente senza lavoro e con un piccolo gruzzolo che non potresti investire altrimenti. Potevamo andare in vacanza in una città alla moda e spendere tutto per compensare la delusione in divertimenti o in un'isola turistica a farci servire anzichè servire.
Invece abbiamo scelto come destinazione un posto abbastanza lontano da non sentirci a casa.

Lontana nello spazio e nel tempo, lontana nel modo di vivere e di pensare, di Kathmandu avevamo letto solo nei libri e ci era sembrata l'unica meta in cui trovare quello che stiamo cercando.

Un viaggio è una missione, si va a cercare qualcosa da riportare indietro o non si torna più.

Molti vanno a Kathmandu per fare trekking, nella forse inconsapevole missione di arrivare più in alto. Alcuni, memori degli anni degli hippies, credono di poterne fare ancora un viaggio allucinatorio. Qualcuno parte armato di carte di credito per potersi sentire ricco. Altri sono solo di passaggio in un incessante peregrinare che ha lo scopo di fagocitare il mondo. Noi cerchiamo una cosa che riteniamo di aver perduto: la spiritualità.

Anche lo spirito è un'ipotesi ed è volatile, per questo ci ha abbandonati, come Durga abbandona il corpo della Kumari cercandone un'altro più puro. Cercavamo un posto più puro dove il nostro mondo non esiste.

Dice uno dei miei ipotetici compagni- "Il viaggio è già iniziato"- e lo è davvero, dai lunghi preparativi, dalla continua ricerca di informazioni, dalle ipotesi su quello che accadrà. Ma non pensavamo ci fosse dell'altro: le reazioni.

A parlarne, in molti cercano di scoraggiarci, hanno paura, per noi e di noi. E in un baleno mi accorgo che il viaggio è già iniziato, precisamente la ricerca, poichè questo fa parte del gioco. Stiamo conoscendo davvero chi ci circonda a partire dalla sola ipotesi del viaggio.

Scandaglio con frenesia il fondo a cercare informazioni, voglio sapere tutto prima, come si vive, come si mangia, cosa può succedere, come fossi già lì.
Guardo ore e ore di filmati, leggo righe e righe di reportage, scrivo decine e decine di messaggi a persone invisibili che potrebbero aiutarmi.
Il viaggio è già iniziato. Conosco già le strade, i prezzi degli alberghi, le date delle festività, i nomi della Dea Vivente, il colore delle vedove, le cronache delle morti, le lettere dell'alfabeto Devanagari, il cambio della moneta, il voltaggio dei black out, i decori degli stupa, il sapore delle verdure, l'odore delle spezie, il sangue di trecentomila animali sacrificati, il dolore delle bambine, la paura delle superstizioni, il freddo dell'Annapurna, il malessere delle infezioni, il vuoto, la grande inconsistenza dell'idea, la forte delusione dell'ipotesi sbagliata.

Ecco cos'è questo dolore. Stiamo cercando lo spirito dove forse non c'è.

Ha senso partire? Potrei non tornare. Potrei davvero morire. Ma non ho paura della morte, solo del dolore.

Bibliografia ispirativa:
"Partire è un pò morire", Edmond Haracourt
"Flash. Katmandu il grande viaggio", Charles Duchaussois

lunedì 22 agosto 2011

Libertà d'espressione

Da qualche giorno tutti i giornali e i tiggì, pure quelli locali e di quartiere, si sgomitavano in inchieste ed interviste esclusive sullo scandaletto del momento ed erano arrivati persino ad interrompere le trasmissioni dell'ora di pranzo per mandare importantissimi flash di aggiornamento sui fatti accaduti. Agostina si seccava molto quando sul più bello delle confessioni shock a Tribuna sentimentale la linea passava di colpo al notiziario che doveva a tutti i costi informare i cittadini sull'ultima dichiarazione di un politichetto di paese secondo cui il vescovo della diocesi locale si era macchiato di crimini immorali non meglio specificati.
Agostina scolava la pasta, spennellava l'arrosto, sciacquava le pesche e chiamava tutti a tavola. L'amministratore aveva nuovamente invitato alcuni condomini a pranzo per approcciare una riunione di condominio a tavola senza perdere tempo con le convocazioni ufficiali. Quel giorno c'erano il geometra del primo piano che da mesi rompeva le scatole a tutti sostenendo che le carte catastali del palazzo erano state modificate e che le tabelle millesimali andavano ricalcolate, la maestra di scuola del quarto piano che si lamentava sempre del rumore provocato dagli studenti in affitto del quinto piano che facevano festini mentre lei correggeva i temi, il negoziante di antiquariato che aveva un locale sul piano strada continuamente invaso dalle muffe delle infiltrazioni che anni di ristrutturazioni non avevano sanato e l'agente immobiliare che aveva mandato di vendere un vano nel sottotetto su cui pendeva un vincolo di eredità irrisolto da generazioni di proprietari che non riuscivano a mettersi d'accordo.
Mentre Agostina serviva in tavola quella marmaglia condominiale aveva già iniziato il dibattimento senza troppi convenevoli: scostavano le sedie facendole rumorosamente strusciare a terra, gesticolavano animatamante allargandosi sul piano del tavolo mentre Agostina cercava di posare i piatti evitando di essere colpita da una manata vagante, aprivano le bottiglie e trangugiavano il vino ancora prima di avere il piatto pieno e prendendosi da soli il cavatappi dal cassetto senza nemmeno chiedere il permesso di frugare nei mobili. Del resto tutto ciò dimostrava quanto tutti loro fossero avvezzi a certe consuetudini ormai radicate a casa dell'amministratore.
Tutti strillavano, rivendicando a vario titolo le loro ragioni, ma non sprecavano nemmeno una briciola del lauto pasto, mentre la televisione accesa nella sala da pranzo aggiungeva voci in più al coro disordinato. Ovviamente il telegiornale di mezzogiorno apriva con le notizie legate allo scandalo e prometteva opinioni inopinabili di opinionisti professionisti.
Un allenatore della squadra di calcio, capogirone della provincia, era stato citato per una presunta relazione con la figlia di un assessore alle politiche sportive, il quale, appartenente a un partito fortemente legato alla Chiesa, era stato intercettato sul cellulare ed accusato di aver pagato tangenti alla Diocesi per la costruzione di un impianto sportivo. La storia, da banale pettegolezzo infondato si era ingigantita, articolandosi nelle più disparate supposizioni mai verificate eppure sparate ai quattro venti come assolutamente accreditate.
Giornali e TV avevano così mischiato sesso e politica, denaro e religione e poi per estensione denaro e politica,  sesso e religione, al punto che alla fine era stato il vescovo ad essere accusato di relazioni sessuali con la figlia dell'assessore, o con l'assessore stesso secondo le fonti, per alcuni con la segretaria particolare dell'assessore che a volte era notificata quale sua amante, o amante dell'allenatore della squadra di calcio, che era coinvolto in un giro di tangenti, tutti intercettati anche sul cerca-persone, messi alla berlina per ogni loro movimento, accompagnati via via da personaggi che si aggiungevano: il comandante dei vigili urbani che andava troppo spesso in chiesa la domenica invece di dirigere il traffico e quindi era possibile che nel confessionale in realtà passasse informazioni al parroco, semplice prete di paese in apparenza, in realtà segreto braccio destro del vescovo, e poi il farmacista le cui preparazioni galeniche per alcuni in realtà nascondevano mix di droghe destinate a feste private frequentate da VIP di cui non si facevano nomi ma tanto tutti sapevano... Tutti sapevano o presumevano di sapere. E in tutto questo proseguiva la riunione di condominio tra commensali.
Agostina sopportava poco il geometra perchè siccome aveva studiato pretendeva di sapere tutto e aveva il vizio di correggere continuamente gli errori altrui, entrando spesso in conflitto con la maestra che sulla lingua italiana vantava sicuramente una ferratezza maggiore.
Aveva pena dell'antiquario che secondo lei vendeva solo cianfrusaglie, spinto più dalla passione che dal commercio.
Stimava poco l'agente immobiliare perchè si presentava impettito e con i denti in mostra e queste cose a lei avevano sempre fatto sospettare.
A casa dell'amministratore ci viveva da una decina d'anni e si occupava di tutte le faccende domestiche. Delle cose del condominio non s'intendeva ma al suo datore di lavoro rimproverava fin troppo spesso il disordine e i modi confusionari, soprattutto quell'abitudine di affrontare le sue questioni persino in casa rendendole difficile il lavoro. Le cose che più desiderava in quel momento erano due: una, che quell'assemblea di fracassoni terminasse prima possibile, l'altra, che le interviste agli esperti di non si sa cosa chiudessero e le lasciassero vedere l'ultima puntata di Cataclisma d'amore. Invece non solo nessuna delle due cose accennava a verificarsi ma, peggio ancora, tendevano a integrarsi!
Alla TV un noto critico d'arte sosteneva la causa della libertà d'espressione dei giornalisti, avverso da un politico moralista che difendeva a spada tratta il diritto alla privacy. Il geometra ne approfittava per avvalorare le sue ragioni: "Ecco, perchè se nomini la Chiesa cade giù il mondo!" e gli rispondeva l'antiquario, vantando santi nell'albero genealogico: "Devono portare più rispetto ai preti perchè quando il mondo era piegato da carestie e pestilenze chi li ha salvati?"
A quel punto l'amministratore sentiva di dover mettere pace, in virtù del suo ruolo che poteva estendersi a tutto: "Beh, sicuramente tutti hanno meriti e colpe però in questa storia, secondo me, c'è chi ha inventato sciocchezze per guadagnarci qualcosa" e a quelle parole la mestra si sentì punzecchiata: "Che vorrebbe dire? Che mi sono inventata qualcosa per imbrogliare sui miei millesimi?" e fulminò con lo sguardo il geometra, che replicò a sua volta agitando le fotocopie delle piante catastali: "Eeeeh, signora! Qui l'inventiva non manca proprio a nessuno... a nessuno!" rivolgendo gli occhi a turno a ciascuno dei presenti, sicchè anche l'agente immobliare che fino ad allora se n'era rimasto composto, gettò la forchettà nel piatto e allargò la bocca in una smorfia di disappunto: "Se vogliamo dirla tutta in questo palazzo sono secoli che gli inquilini si inventano panzane!" "E' vero!- gli si accompagnò l'antiquario- Eccome se è vero!" e di nuovo la maestra: "Ma come vi permettete! Che ne sapete voi della gente onesta che abita nel palazzo? Non vi vergognate a fare certe dichiarazioni?" e l'agente immobiliare: "Hai voglia se è vero!! Guardi che io ho le prove di quello che dico- proclamava spargendo sul tavolo le sue pratiche e indicando i fogli uno dopo l'altro come se ciascuno contenesse la conferma di ciò che diceva- perizie e denuncie di più di quarant'anni, ritrattate, falsificate e manomesse, ce n'è per tutti i gusti!"
"Ma questo non vuol dire mica che per un colpevole tutti devono essere additati!" saltò sulla sedia l'amministratore, altrettanto fece il geometra: "Ma diciamo pure che i clienti del signore- indicando l'agente immobiliare- che sono stati proprietari del palazzo per lungo tempo hanno fatto parecchi giochi sporchi per non perdere un centesimo dalle loro rendite, sfruttando il fatto di essere una famiglia in vista cui nessuno avrebbe osato dire una parola sbagliata! Non è forse così, signor amministratore?!" Incalzato da quell'osservazione l'amministratore non potè che riconoscerne la veridicità: "Beh, ecco... insomma... diciamo che i proprietari non hanno fatto proprio le cose per bene..." "Truffatori furono! Altrochè... non usiamo delicatezze quando i fatti parlano chiarò" tuonò il geometra ritto all'impiedi sbattendo con tale forza le sue fotocopie sul tavolo da far cadere due bicchieri che rovesciarono vino sulla tovaglia candida. Agostina saltò su pure lei allora, portandosi le mani alla bocca per trattenersi le imprecazioni ma gli altri la ignorarono completamente tornando alla loro bagarre.
Agostina sollevò il suo piatto e con aria stizzita voltò le spalle e se ne tornò in cucina. Accese il piccolo televisore in bianco e nero proprio mentre l'orologio segnava l'orario d'inizio della sua telenovela: l'ultima puntata era importantissima, rivelava finalmente chi era l'amore segreto della protagonista che per tutta la durata della serie era stata affiancata da una sfilza incalcolabile di partner.
E invece, con gran disdetta della donna, appena sintonizzato il canale giusto si trovò un'altro notiziario flash con l'ennesimo opinionista che ribadiva i principi della libertà d'espressione, il diritto di poter dire liberamente cosa si pensava, di come lo sostenevano gli antichi romani e di come lo negavano i moderni oscurantisti. L'avrebbe saputo lei cosa dire se loro glie ne avessero dato il diritto!
Con rabbia acchiappò la pentola con cui aveva cucinato e la sbattè nel lavello con le altre stoviglie sporche facendo schizzare fuori l'acqua saponata. Sussultò e lo sguardò le finì così oltre la finestra da cui si vedevano ondeggiare al vento le tende da sole del balcone. Agostina trasalì: c'è una grossa macchia azzurrognola su un lembo della tenda, provocata da un liquido che continuava a sgocciolare dal balcone del piano di sopra. Era l'appartamento in cui viveva la sua nemica giurata, la moglie del portiere, che pure dopo la pensione del marito non aveva dimesso la sua attività di pettegola del palazzo, con cui si faceva concorrenza con Agostina.
Tra le due donne non era mai corso buon sangue perchè entrambe avevano il vizio di farsi gli affari di tutti tranne i propri, ma, redarguite più e più volte dagli inquilini, si accusavano vicendevolmente per scrollarsi le colpe.
Agostina non poteva assolutamente tollerare che quella chiacchierona rovinasse le sue tende e tornò decisa verso la sala da pranzo per fare rapporto all'amministratore, in barba ai condomini che non la smettevano più di fare baccano sulla sua tovaglia. Con un gesto deciso della mano li quietò tutti. Si accostò all'orecchio dell'amministratore, che stava ancora in piedi a beccarsi col geometra, coprendosi la bocca con la mano, bisbigliò qualche parola e l'uomo annuì aggrottando la fronte. Prese il telefono: "Signora Rosanna? Buongiorno, sono l'amministratore... sì, tutto bene... sì i nipoti stanno bene... sì... sì, Signora io... sì... io... Signora... Signora ascolti... Signoraaa!!- la signora Rosanna del secondo piano non si smentiva mai e ogni volta che qualcuno le rivolgeva la parola attaccava una chiacchiera infinita, con lo scopo fondamentale di carpire notizie su cui spettegolare- Signora Rosanna c'è qui Agostina che mi dice della tenda... sì la tenda del nostro balcone, le sta cadendo qualche cosa di sotto che ce l'ha macchiata... ecco, ecco... sì infatti le volevo proprio chiedere di scendere a vedere..." e in men che non si dica la moglie del portiere era sull'uscio.
"Buongiorno a tutti!- salutò con grande enfasi- Allora, cos'à da dirmi la sua domestica?" domandò all'amministratore rimarcando il ruolo di Agostina come un'offesa. "Andiamo a vedere questa tenda- propose l'amministratore alzando le mani- spero non sia niente di grave... ma lei Signora Rosanna cos'è che ha rovesciato?" "Mah, sarà stata la varecchina che tengo sulla lavatrice in balcone, si vede che la centrifuga l'ha fatta cadere" si giustificò la donna con sufficienza.
Tutta l'assemblea si trasferì in cucina, Agostina e Rosanna in testa che si scambiavano sguardi in cagnesco. La domestica indicò oltre la finestra, verso la tenda da sole del balcone su cui si era sparsa ben bene la macchia di varecchina scolorendone una parte. "Eh beh, la macchia si è fatta!" osservò l'amministratore, seguito da un bisbigliare di consenso degli altri dietro di lui. "E che sarà mai- commentò voltando le spalle Rosanna- ne vendono pure al supermercato di quelle tende lì, compratevene un'altra e fatemi sapere il conto che ve la regalo volentieri, anzi compratele tutte nuove che ormai le vostre sono belle che da buttare!" di certo Rosanna non rinunciava alla sua libertà d'espressione e nessuno osò risponderle. Ma Agostina perse proprio le staffe e tirò la manica della camicia all'amministratore per rammentargli quello che gli aveva detto prima: "Ah...Signora Rosanna aspetti... c'è qui Agostina che vorrebbe parlarle, trovo giusto che almeno esprima la sua opinione in merito, è lei che pensa alla casa del resto... Ecco, sì- assunse un tono più deciso e autorevole- voglio lasciare ad Agostina il diritto di parlare riguardo questa faccenda perchè siamo in un paese democratico e civile e siamo tutti d'accordo sul rispetto della libertà di parola, ecco!" l'antiquario accennò persino un applauso, subito sedato dalle occhiate degli altri tre condomini.
Rosanna incrociò le braccia e ticchettando con le dita sui fianchi restò ad attendere la tanto democratica dichiarazione. Agostina con un sorriso fiero avanzò verso di lei, inclinò la testa all'indietro come se prendesse la rincorsa e disse "Zoccola!". Tutti senza fiato li lasciò.
Dopo qualche secondo di incredulità generale l'amministratore intervenne: "Agostina! Ma cosa dici?! Ma che scherzi mi fai?" e la domestica si difese: "E' quello che penso, che non lo posso dire? Devo sempre starmi zitta, io! Invece voglio esprimermi liberamente e io dico che è zoccola!"
A quel punto Rosanna montò su tutte le furie e le portò le mani al collo: "Ma tu e tutte le tue parenti!" iniziò una baruffa che coinvolse tutti nella cucina, tra le due donne che se le davano e gli altri che cercavano di separarle, mentre alla TV trasmettevano un talk show dove ospiti importanti non riuscivano a stabilire con metodi civili se in Italia si preferiva la verità o l'educazione.
L'assemblea di condominio si concluse al pronto soccorso con alcuni contusi e un infermiere gravemente ferito.
Anche lo scandalo dell'estate si concluse, passando il testimone a quello successivo che annunciava l'autunno.

La festa del paese

Era una notte buia e tempestosa, aveva piovuto tutta la settimana e l'ultimo temporale aveva fatto saltare la corrente a tutti i quartieri confinanti con la chiesa, che condividevano una vecchia centralina elettrica.
Non che fosse un male, anzi: mai come quell'anno in paese si era sperato che qualcosa impedisse la festa patronale. Invece la malasorte volle che proprio al sabato sera in cui si concludevano i festeggiamenti in memoria del martirio di San Gualdino la pioggià cessasse e la corrente elettrica tornasse ad invadere le vie di luce artificiale.
Gianluca non usciva da giorni per via del maltempo e non ne poteva più. Aveva voglia di fumarsi una sigaretta e poteva approfittare della festa come scusa per uscire a cercarsi un posto appartato perchè aveva solo 14 anni e in casa non sapevano che fumava.
Ma San Gualdino doveva proprio avercela con lui "Mamma, io esco, vado alla festa" aveva annunciato defilandosi per la porta di casa "Aspetta! Vengo con te!" lo seccò sua madre sulla soglia.
Peggio di così non poteva andare. Per tutto il tempo la madre non aveva fatto altro che ciarlare "Ci tenevo così tanto a vedere la festa, tuo padre non mi porta mai da nessuna parte..."
Il ragazzo era già nervoso perchè la sua fumata in solitaria, era proprio il caso di dirlo, andava in fumo, oltretutto non voleva farsi vedere dagli altri ragazzi in giro con sua madre.
Per fortuna c'era poca gente in giro, molto poca. Vuoi per il freddo e l'umido, vuoi perchè di sabato sera le persone normali vanno a divertirsi in posti migliori, vuoi perchè di quella festa paesana non interessava niente a nessuno, ma la partecipazione era assolutamente scarsa.
"Uh, come sono contenta che c'è la festa, quando ero bambina mi divertivo tanto- continuava a squittire la mamma e Gianluca non capiva che c'era da divertirsi in quel mortorio- uh che belle le bancarelle! Ci prendiamo lo zucchero filato?  Uh, senti la musica!" "Ma'! Ma quale bello, non lo vedi che non ci sta un cavolo?" borbottava lui seccato da tanto ingiustificato entusiasmo. Tutta la strada principale del paese era stata transennata per impedire il passaggio alle automobili e lasciare libere le piazzole per le bancarelle. Ma le bancarelle non c'erano e la strada era vuota, accentuando ancor più la desolazione. Gianluca pensò che nemmeno i venditori ambulanti avessero accettato di partecipare.
Nel parcheggio del supermercato erano state montate due giostrine e un autoscontro. I giostrai con le facce tetre sgranocchiavano arachidi  e riempivano i marciapiedi di gusci, non c'era nessun bambino a quell'ora. Solo sulle macchinette della pista c'era qualche ragazzino che aveva tormentato il padre per farcisi portare.
Lungo le strade si alzavano i fumi di frittura dei chioschi che cuocevano pannocchie, patatine e panini alla porchetta ed erano le uniche attività intorno a cui le persone si radunavano, specialmente uno che aveva installato un ricevitore satellitare per trasmettere la partita di calcio della serie A: lì sì che c'era un bel mucchio di gente, tutta dedita a fare pronostici e discutere animatamente sul calciomercato come se si trattasse di roba loro, il che, tuttosommato, potevano farlo anche standosene a casa.
Non mancava un flusso migratorio verso la piazza del paese, in mezzo alla quale sorgeva la chiesa dedicata a San Gualdino, tutti andavano verso la musica rimbalzante sui muri delle palazzine, la cui eco arrivava fino al paese vicino.
Le ragazzine appena adolescenti agghindate da gran sera schiamazzavano, correndo lungo la via, tenendosi tutte strette sottobraccio con le altre, un po' infreddolite e un po' vergognose di sembrare contadine a festa ma con la speranza di farsi vedere dai ragazzi, che invece non si erano fatti vivi. C'era solo Gianluca a lanciare qualche occhiata ma solo per farle contente o avrebbero passato la serata a rimirarsi tra di loro.
"Uh che bello, la musica! Corriamo, andiamo a vedere!" starnazzava sua madre man mano che si faceva più forte il ritornello insopportabile di una mazurca importata da chissadove, tirandolo per le maniche, saltando ansiosa di vedere la più brutta orchestrina del mondo: una decina di fessi con addosso costumi gialli e rossi che pareva avessero scambiato la ricorrenza del martirio col Carnevale. La piazza era quasi deserta e le facce dei presenti erano tutt'altro che divertite, quasi li avessero costretti a stare lì al freddo a sorbirsi l'imbarazzante esibizione sul palco.
"Balliamo?" propose la mamma di Gianluca con un sorriso che le arrivava alle orecchie.  Questo era troppo "No!" rispose secco il ragazzo. La madre voltò la testa con l'aria di essersi offesa e si concentrò tutta sulla musica accennando qualche passo di ballo, esplodeva dalla voglia di divertirsi. Gianluca se ne rese conto e questo gli fece un po' male. Però che poteva farci lui, che era un ragazzo d'altri tempi, se quella festa avrebbe fatto pietà persino a San Gualdino stesso?
La mamma tornò improvvisamente da lui "A che ora li fanno i fuochi?" "Che??" "I fuochi, i botti, li fanno? Io li voglio vedere! Scusi, che sa quando fanno i fuochi?- domandò alle prima persone che si ritrovò nelle vicinanze- Lei lo sa? I fuochi a che ora li fanno? Ma qui in piazza o al belvedere?- nessuno sapeva rispondere. Finchè nelle tenebre rischiarate dalle lucette decorative sospese tra i lampioni  a cavallo della piazza, non comparve ondeggiante una piccola suora, diretta verso la sagrestia di gran lena- Sorella ma i fuochi quando li fanno?- la mamma non mancò nemmeno lei. "Eh, signora- rispose la suorina scuotendo nervosamente il capo avvolto nella cuffia velata- quest'anno niente!" "Ma come?! Perchè non li fanno?!!" fu quasi un grido di dolore.
"Eh, signora, quest'anno non ci sono bastati i fondi, purtroppo le offerte sono state troppo poche... giusto giusto per pagare la musica!" si giustificò quasi stizzita la suora indicando il palco e continuando a scuotere la testa, come a voler incolpare tutti gli abitanti del paese per non aver sganciato abbastanza.
La mamma di Gianluca pareva aver ricevuto un colpo al cuore- Ma io li volevo vedere i fuochi!- era una delle cose che Gianluca meno sopportava di sua madre questo attaccamento ai fuochi d'artificio, sempre uguali da decine di anni.
Ormai era il caso di tornare e la donna si avviò verso casa stringendosi le braccia al petto per il freddo e adocchiando un po' tutti i passanti come colpevoli della sua delusione. Gianluca la seguiva poco distante con le mani in tasca e l'aria annoiata. Passando davanti all'unico pub del paese allungò l'occhio oltre la porta aperta, per via di una cameriera che all'ingresso passeggiava sui tacchi luccicanti mentre chiacchierava sfaccendata al cellulare: dentro la sala era completamente vuota. Di sabato sera. Chissà dov'erano tutti, se fuggiti verso mete di svago più ricche di vita o rinchiusi nelle loro case a guardare il calcio e discutere del calciomercato.
Anche nell'ultimo tratto verso casa sua Gianluca non aveva incontrato nessuno di sua conoscenza (per fortuna). Persino i venditori ambulanti facevano i bagagli con in volto l'espressione pentita di chi aveva perso tempo e denaro. Quella non era la festa del paese: era il funerale!
Quando furono sulla soglia il ragazzo, ormai persa ogni speranza di fumarsi la sua sigaretta, sbuffò contento solo di potersene andare a dormire. La mamma, proprio davanti a lui, inserì la chiave nella serratura e spinse in avanti la porta. Si voltò verso il figlio, esibendo un sorriso radioso "Domani ci torniamo?"

Lavoro flessibile

Antonella aveva 19 anni compiuti da poco, un diploma fresco fresco e doveva finalmente affrontare la sua vita.
Abitava in una piccola città di provincia, quasi un paese, con un grande polo industriale che accoglieva ondate di operai da tutte le frazioni vicine. Antonella, come la logica suggerisce, aveva dapprima cercato un lavoro attinente ai suoi studi. Aveva studiato da disegnatrice orafa e si aspettava, quantomeno, di lavorare in un laboratorio di produzione di gioielli e altri accessori. Fu sfortunata però, in paese non c'era rimasta più nessuna azienda di quel tipo e nei piccoli negozi di oreficeria che si affacciavano sulla via principale non assumevano disegnatori, al massimo qualche commessa, ma che fosse esperta di contabilità, carature e altre discipline più commerciali che artistiche. Antonella quelle cose non le aveva mai studiate ma tanto di fare la commessa non le andava. Lei voleva disegnare anelli e collane, ed era anche molto brava.
Tentò di specializzarsi facendo domanda per un corso professionale in una scuola prestigiosa di moda e costume, che selezionava rigidamente gli studenti con un esame di ammissione. Antonella era pronta a tutto e avrebbe sostenuto qualsiasi esame... ma guardacaso le dissero che per quell'anno il corso non sarebbe stato attivato. Chissà chi era più sfortunato, se loro o lei, che nuovamente si trovava senza una strada per il suo futuro.
Dopo aver trascorso qualche mese a casa organizzandosi alla meglio tra iscrizioni agli uffici di collocamento, visite frequenti al Comune del paese, riviste di annunci, colloqui, corsi di orientamento alla fine si arrese a un suggerimento che le avevano dato certi suoi amici sfaccendati: le agenzie di lavoro temporaneo.
Si chiamavano così nelle grandi città. Nei piccoli centri invece erano dette cooperative. Antonella non capiva la differenza, sapeva solo che queste davano lavori saltuari di pochi giorni e sempre diversi. In quei tempi si facevano grande pubblicità queste agenzie, o cooperative: dicevano che il lavoro temporaneo era giovane, dinamico, flessibile, creativo. Lo slogan più comune era "gestisci il tuo tempo", come a voler dire che lavorare in quel modo permettesse di avere gli orari che più facevano comodo. Ma a sue spese Antonella scoprì che tutto ciò non corrispondeva al vero.
Dopo l'iscrizione non si fece vivo nessuno per giorni, poi una mattina alle 11, mentre si lavava i capelli ricevette una telefonata. Le chiedevano di andare in una fabbrica vicina a casa sua per sostituire una signora in maternità "...Sì, ma che devo fare?" volle sapere lei "Lo chieda lì". Strano, non sapevano qual'era la mansione che le affidavano?
Con i capelli bagnati Antonella si precipitò sul luogo di lavoro, si affacciò al gabbiotto del portiere e gli spiegò la faccenda della sostituzione. Quello non fece una piega, si alzò e le fece strada dentro un capannone dove una ventina di persone sedute intorno a dei tavoli armeggiava con delle buste postali di quelle gialle e grandi. "Cosa devo fare?" gli domandò lei, il portiere rispose di farselo spiegare dagli altri.
Allora Antonella si sedette al primo posto libero, tra una ragazza e una signora abbastanza matura. Queste due le insegnarono finalmente il misterioso "lavoro": le buste gialle contenevano i moduli di un censimento alle imprese di tutta Italia e loro dovevano aprirle una per una, dare un'occhiata sommaria al contenuto, appiccicare un'etichetta numerata e buttarle in uno scatolone. Se trovavano qualche altro foglio estraneo nella busta lo buttavano, se c'era scritto che il destinatario era deceduto o errato andavo messe in una scatola speciale. Tutto qui? - si domandò perplessa Antonella, tuttavia si avviò anche lei in quella pratica ripetitiva che le avrebbe occupato 8 ore della sua giornata con una paga di 8.000 lire l'ora.

La fabbrica era un'industria tipografica con degli operai fissi che stavano alle rotative, e per arrotondare si prendeva in appalto dei lavori esterni che non assegnava ai propri dipendenti ma si faceva mandare dalle agenzie, o cooperative, un po' di gente che non doveva assumere e quindi non doveva pagare con un trattamento normale.
Il censimento delle imprese italiane era nelle mani di Antonella e dei suoi colleghi, ai quali non poteva interessare di meno, per cui a volte si perdevano le buste o ne danneggiavano il contenuto. In qualche caso la busta gialla non era destinata al censimento e le Poste l'avevano buttata nel mucchio per sbaglio, così i lavoratori temporanei l'aprivano lo stesso e il contenuto veniva irrimediabilmente buttato. Antonelle vide andare perdute per sempre domande di lavoro, lettere dal carcere, raccomandate importanti e pensava a quelle ignare persone ormai danneggiate. Si spiegava finalmente perchè alcuni servizi postali non funzionassero.
Gli altri operai li chiamavano lavori dei deportati quelli che facevano fare ad Antonella, perchè erano veramente dei lavori stupidi che qualcuno doveva pur fare. A volte svuotavano buste, a volte riempivano buste. Raccoglievano fogli, attacavano etichette, chiudevano scatole, imballavano plichi, sballavano plichi, aprivano scatole, staccavano etichette e così via.
L'agenzia, o cooperativa, che li aveva mandati li pagava per il numero preciso di ore che avevano lavorato, registrate sui cartellini e se si andava via a metà giornata l'altra metà non era pagata. C'era l'inconveniente, però, che i lavori dei deportati finivano, ma nessuno poteva stabilire quando: tutto dipendeva dalla velocità con cui i lavoratori armeggiavano le buste. Ciò era controverso, perchè da una parte loro, i lavoratori, naturalmente facevano in modo che il lavoro durasse il più possibile, rallentandosi, perdendo tempo, nascondendosi qualche busta di scorta, d'altra parte i capi volevano che si sbrigassero, ogni giorno pretendevano un numero superiore di scatole imballate e di buste etichettate, perchè più stavano lì e più dovevano pagarli.
Con queste modalità non si lavorava tutti i giorni ma solo quando si veniva chiamati, il che poteva avvenire a qualsiasi ora del giorno. Non rispondere alla chiamata o rifiutare significava perdere il lavoro anche per mesi perchè avrebbero chiamato qualcun altro.
Antonella dopo pochi giorni in quel posto ci stava malissimo, anche perchè, oltre allo squallore del lavoro in sè, aveva scoperto che tra gli altri lavoratori c'era la gente più disperata, chi manteneva la famiglia così, chi aveva malattie, chi viveva quasi per strada. E si sa che certe cose scatenano guerre tra poveri, infatti in quel capannone aleggiava un clima di complotti e dispetti. Capitava alle volte che qualcuno venisse mandato via e mai più richiamato. Poi si scopriva che un altro lavoratore era andato a parlar male di quello con i capi.
C'erano due o tre persone che lavoravano sempre, tutti i giorni, per tutti i lavori. Antonella venne a sapere molto dopo che erano parenti dei capi.
Peggio ancora, nessuno di loro aveva un'assicurazione ne strumenti per la sicurezza. Se qualcuno si faceva male, cadendo da una pila di rotoli di carta o travolto da scatole mal riposte in colonna, in men che non si dica veniva regolarizzato, così quando, un'ora dopo circa, si presentava l'ispettore del lavoro, risultava sempre che il ferito era stato appena assunto dopo un periodo di prova e l'azienda non passava troppi guai. Ovviamente il ferito si prendeva una ramanzina per non essere stato attento e aver messo in difficoltà l'azienda.
Tutti loro erano schiavi, ne più ne meno.
Per circa due mesi la mandarono sempre alla stessa fabbrica. Ci lavorava per una settimana intera, poi una settimana a casa, poi dieci giorni filati, poi tre giorni a casa, poi un'altra settimana e poi due settimane a casa. Quando i giorni a casa cominciarono a diventare troppi Antonella temette che qualcuno l'avesse fatta cacciare parlando male di lei. Ma una sera, mentre era a cena, le arrivò la fatidica chiamata: la mandavano in un'altra fabbrica.
Era lontana da casa, in mezzo al quartiere industriale, intorno solo fabbriche, una pizzeria poco fornita per pranzare a sue spese e una strada trafficata. Appena arrivata la fecero entrare in un capannone più piccolo di quello in cui aveva sempre lavorato, ma molto più affollato. Non conosceva nessuno e non sapeva che lavoro doveva fare. Chiese agli altri lavoratori ma tutti erano scostanti, seccati dal doverle fare da balia e le rispondevano con sgarbo. Il motivo sembrava essere che più gente veniva convocata e meno lavoro c'era per tutti, quindi meno ore sul cartellino e meno soldi alla fine del mese.
In questa fabbrica Antonella non ebbe il tempo di capire cosa si producesse, ma il suo lavoro consisteva nell'imballare le confezioni delle schede SIM dei cellulari con le ultime offerte commerciali che poi sarebbero andate sugli scaffali dei negozi di telefonia. Questo lavoro aveva la particolarità per cui, trattandosi di articoli di valore, per paura che i lavoratori temporanei li rubassero, durante il lavoro venivano chiusi a chiave dietro un gigantesco cancello nell'area del capannone dove stavano radunati e alla fine della giornata dovevano registrare sul computer la quantità di oggetti che avevano maneggiato e tutti i movimenti che avevano fatto.
Antonella rincasò traumatizzata dalla giornata di lavoro e piuttosto che tornarci il giorno dopo telefonò all'agenzia, o cooperativa, e si diede per malata.
Per una settimana non si fece vivo nessuno, ma poi la richiamarono un'altra volta nella fabbrica vicino casa sua.
Nel mese di agosto la fabbrica chiudeva, per tutti. I lavoratori erano in ferie forzate e per tutto il mese non ci sarebbe stato lavoro nemmeno volendo.
Antonella in tre mesi che aveva lavorato così non aveva fatto lo stipendio di un mese di sua madre. A settembre telefonò per l'ultima volta all'agenzia, o cooperativa, per dire che si iscriveva a un corso professionale e che non avrebbe lavorato con loro per un pezzo.
Non ci tornò mai più. 

La macelleria

Molti anni dopo diventai vegetariana ma da bambina mia madre mi mandava a fare spesa tutti i giorni.
Odiavo la macelleria e la lasciavo sempre come ultima tappa del mio giro. Mi faceva schifo già dal nome, che per me evocava macello nel senso di gran confusione ma anche macello nel senso di mattatoio.
Una volta entrati si poteva uscirne anche un'ora dopo per via della fila di persone, lunga e lenta. Non perchè gli avventori bramassero carne come sciacalli e nemmeno perchè lì fosse migliore che altrove. Il motivo era che i macellai, tre fratelli uno più corpulento dell'altro, se la prendevano molto comoda. La loro attività li aveva arricchiti al punto di non curarsi eccessivamente della qualità del servizio. Era letteralmente una boutique della carne.
Un'altra cosa che proprio non sopportavo era la clientela, o meglio, una parte di essa: le signore anziane. Queste, per la maggiore pensionate benestanti e annoiate, facevano la spesa per passare il tempo. Dopo essere state in coda a chiacchierare per un pezzo, al momento del loro turno si appiccicavano al vetro del banco incerte "Mah, e adesso che prendo? Boh, non so che fare per pranzo. Che mi dai? Mah... Boh... Va bè, dammi quello, quello e quell'altro..." indicando a caso e spendendo anche 70.000 lire di carne che probabilmente sarebbe andata ai cani.
Io ero veloce, quando toccava a me srotolavo rapida e concisa quello che mi serviva, di solito qualche etto di fettine e un po' di prosciutto. Per le cose più complicate, tipo l'arrosto o il pollo, mia madre telefonava prima e se lo faceva preparare.
Una volta, a Natale, mia madre si era fatta preparare un abbacchio ma il macellaio che se n'era occupato non era tanto sicuro di averci azzeccato. Così quando andai a ritirarlo mi disse di entrare nel laboratorio a vedere. Camminavo a piccoli passi su un pavimento talmente intriso di grasso che si scivolava. Avevo il terrore di cadere e imbrattarmi. E poi c'era un odore di sangue da far vomitare.
Io non me ne intendevo di abbacchi e altre mattanze perciò me ne fuggii subito suggerendo allo scannavitelli di telefonare a casa mia per farselo spiegare meglio.
Alle superiori il professore di arte ci fece lezione sul quadro di Annibale Carracci, figlio di macellaio, che ritraeva una bottega d'altri tempi. Era del tutto diversa dalla nostra, ordinata, pulita, senza sangue e i macellai erano anche più belli. Se i Carracci avessero fatto spesa da noi non solo non avrebbero dipinto un bel niente, ma sarebbero andati a tirare una sassata alla vetrina.
Tempo dopo decisi di diventare vegetariana.

Annunci di lavoro moderni

Affermata azienda leader nel settore con importanti contatti in tutto il mondo, prestigiosa nelle sue attività, rinomata, riconosciuta, pluripremiata, megafantastigliosa, per ampliamento proprio già fantastico organico cui vorrebbe dare un tocco di umanità assumendo anche se non serve, cerca la seguente figura professionale:

schiavo, plurilaureato con il massimo dei voti prima del tempo legale del corso di laurea, minimo 3 master preferibilmente all'estero, max 20 anni (no minorenni causa noiosa burocrazia), con comprovata esperienza pluriennale dimostrabile mediante vasta documentazione controfirmata da notaio e dichiarata in questura da testimonianze reali di almeno 10 persone (lavoratori attivi, no pensionati d'altri tempi). E' richiesta la massima competenza in tutti i settori, la più grande manualità ed intelletualità, la più vasta conoscenza di tutti i software (soprattutto versioni sperimentali segrete), tutte le lingue del mondo fluentemente parlate e scritte. E' richiesta soprattutto disponibilità totale e incondizionata alle necessità aziendali, a spostamenti in qualunque zona del mondo nell'arco della giornata, infinita predisposizione ai rapporti umani di qualunque natura.

Si offre:

niente + incentivi (consistenti in tutta la nostra stima)

Cerchiamo persone creative, dalla spiccata personalità, ambiziose, in cerca di crescita personale, non interessate al mero volgare guadagno ma anzi disposte a fare qualche amichevole prestito all'azienda.

Saranno titoli preferenziali:
-automuniti, possibilmente pronti a fare da autisti all'occorrenza
-sterili, votati alla castità o disponibili a mettere sotto custodia cautelare i propri apparati riproduttivi (non si accettano maternità e famiglie da mantenere)
-estremamente bellissima presenza, disinibizione, cedevolezza alle advances per le candidate donne

Sede di lavoro: casa propria dove l'azienda si trasferirà in toto.
Orario: indefinito.
Contratto: fattura del mercante di schiavi.
Ferie: no.
Periodi di malattia retribuita: no.
Contributi: no.
Altro: no.

Astenersi perditempo