lunedì 22 agosto 2011

Libertà d'espressione

Da qualche giorno tutti i giornali e i tiggì, pure quelli locali e di quartiere, si sgomitavano in inchieste ed interviste esclusive sullo scandaletto del momento ed erano arrivati persino ad interrompere le trasmissioni dell'ora di pranzo per mandare importantissimi flash di aggiornamento sui fatti accaduti. Agostina si seccava molto quando sul più bello delle confessioni shock a Tribuna sentimentale la linea passava di colpo al notiziario che doveva a tutti i costi informare i cittadini sull'ultima dichiarazione di un politichetto di paese secondo cui il vescovo della diocesi locale si era macchiato di crimini immorali non meglio specificati.
Agostina scolava la pasta, spennellava l'arrosto, sciacquava le pesche e chiamava tutti a tavola. L'amministratore aveva nuovamente invitato alcuni condomini a pranzo per approcciare una riunione di condominio a tavola senza perdere tempo con le convocazioni ufficiali. Quel giorno c'erano il geometra del primo piano che da mesi rompeva le scatole a tutti sostenendo che le carte catastali del palazzo erano state modificate e che le tabelle millesimali andavano ricalcolate, la maestra di scuola del quarto piano che si lamentava sempre del rumore provocato dagli studenti in affitto del quinto piano che facevano festini mentre lei correggeva i temi, il negoziante di antiquariato che aveva un locale sul piano strada continuamente invaso dalle muffe delle infiltrazioni che anni di ristrutturazioni non avevano sanato e l'agente immobiliare che aveva mandato di vendere un vano nel sottotetto su cui pendeva un vincolo di eredità irrisolto da generazioni di proprietari che non riuscivano a mettersi d'accordo.
Mentre Agostina serviva in tavola quella marmaglia condominiale aveva già iniziato il dibattimento senza troppi convenevoli: scostavano le sedie facendole rumorosamente strusciare a terra, gesticolavano animatamante allargandosi sul piano del tavolo mentre Agostina cercava di posare i piatti evitando di essere colpita da una manata vagante, aprivano le bottiglie e trangugiavano il vino ancora prima di avere il piatto pieno e prendendosi da soli il cavatappi dal cassetto senza nemmeno chiedere il permesso di frugare nei mobili. Del resto tutto ciò dimostrava quanto tutti loro fossero avvezzi a certe consuetudini ormai radicate a casa dell'amministratore.
Tutti strillavano, rivendicando a vario titolo le loro ragioni, ma non sprecavano nemmeno una briciola del lauto pasto, mentre la televisione accesa nella sala da pranzo aggiungeva voci in più al coro disordinato. Ovviamente il telegiornale di mezzogiorno apriva con le notizie legate allo scandalo e prometteva opinioni inopinabili di opinionisti professionisti.
Un allenatore della squadra di calcio, capogirone della provincia, era stato citato per una presunta relazione con la figlia di un assessore alle politiche sportive, il quale, appartenente a un partito fortemente legato alla Chiesa, era stato intercettato sul cellulare ed accusato di aver pagato tangenti alla Diocesi per la costruzione di un impianto sportivo. La storia, da banale pettegolezzo infondato si era ingigantita, articolandosi nelle più disparate supposizioni mai verificate eppure sparate ai quattro venti come assolutamente accreditate.
Giornali e TV avevano così mischiato sesso e politica, denaro e religione e poi per estensione denaro e politica,  sesso e religione, al punto che alla fine era stato il vescovo ad essere accusato di relazioni sessuali con la figlia dell'assessore, o con l'assessore stesso secondo le fonti, per alcuni con la segretaria particolare dell'assessore che a volte era notificata quale sua amante, o amante dell'allenatore della squadra di calcio, che era coinvolto in un giro di tangenti, tutti intercettati anche sul cerca-persone, messi alla berlina per ogni loro movimento, accompagnati via via da personaggi che si aggiungevano: il comandante dei vigili urbani che andava troppo spesso in chiesa la domenica invece di dirigere il traffico e quindi era possibile che nel confessionale in realtà passasse informazioni al parroco, semplice prete di paese in apparenza, in realtà segreto braccio destro del vescovo, e poi il farmacista le cui preparazioni galeniche per alcuni in realtà nascondevano mix di droghe destinate a feste private frequentate da VIP di cui non si facevano nomi ma tanto tutti sapevano... Tutti sapevano o presumevano di sapere. E in tutto questo proseguiva la riunione di condominio tra commensali.
Agostina sopportava poco il geometra perchè siccome aveva studiato pretendeva di sapere tutto e aveva il vizio di correggere continuamente gli errori altrui, entrando spesso in conflitto con la maestra che sulla lingua italiana vantava sicuramente una ferratezza maggiore.
Aveva pena dell'antiquario che secondo lei vendeva solo cianfrusaglie, spinto più dalla passione che dal commercio.
Stimava poco l'agente immobiliare perchè si presentava impettito e con i denti in mostra e queste cose a lei avevano sempre fatto sospettare.
A casa dell'amministratore ci viveva da una decina d'anni e si occupava di tutte le faccende domestiche. Delle cose del condominio non s'intendeva ma al suo datore di lavoro rimproverava fin troppo spesso il disordine e i modi confusionari, soprattutto quell'abitudine di affrontare le sue questioni persino in casa rendendole difficile il lavoro. Le cose che più desiderava in quel momento erano due: una, che quell'assemblea di fracassoni terminasse prima possibile, l'altra, che le interviste agli esperti di non si sa cosa chiudessero e le lasciassero vedere l'ultima puntata di Cataclisma d'amore. Invece non solo nessuna delle due cose accennava a verificarsi ma, peggio ancora, tendevano a integrarsi!
Alla TV un noto critico d'arte sosteneva la causa della libertà d'espressione dei giornalisti, avverso da un politico moralista che difendeva a spada tratta il diritto alla privacy. Il geometra ne approfittava per avvalorare le sue ragioni: "Ecco, perchè se nomini la Chiesa cade giù il mondo!" e gli rispondeva l'antiquario, vantando santi nell'albero genealogico: "Devono portare più rispetto ai preti perchè quando il mondo era piegato da carestie e pestilenze chi li ha salvati?"
A quel punto l'amministratore sentiva di dover mettere pace, in virtù del suo ruolo che poteva estendersi a tutto: "Beh, sicuramente tutti hanno meriti e colpe però in questa storia, secondo me, c'è chi ha inventato sciocchezze per guadagnarci qualcosa" e a quelle parole la mestra si sentì punzecchiata: "Che vorrebbe dire? Che mi sono inventata qualcosa per imbrogliare sui miei millesimi?" e fulminò con lo sguardo il geometra, che replicò a sua volta agitando le fotocopie delle piante catastali: "Eeeeh, signora! Qui l'inventiva non manca proprio a nessuno... a nessuno!" rivolgendo gli occhi a turno a ciascuno dei presenti, sicchè anche l'agente immobliare che fino ad allora se n'era rimasto composto, gettò la forchettà nel piatto e allargò la bocca in una smorfia di disappunto: "Se vogliamo dirla tutta in questo palazzo sono secoli che gli inquilini si inventano panzane!" "E' vero!- gli si accompagnò l'antiquario- Eccome se è vero!" e di nuovo la maestra: "Ma come vi permettete! Che ne sapete voi della gente onesta che abita nel palazzo? Non vi vergognate a fare certe dichiarazioni?" e l'agente immobiliare: "Hai voglia se è vero!! Guardi che io ho le prove di quello che dico- proclamava spargendo sul tavolo le sue pratiche e indicando i fogli uno dopo l'altro come se ciascuno contenesse la conferma di ciò che diceva- perizie e denuncie di più di quarant'anni, ritrattate, falsificate e manomesse, ce n'è per tutti i gusti!"
"Ma questo non vuol dire mica che per un colpevole tutti devono essere additati!" saltò sulla sedia l'amministratore, altrettanto fece il geometra: "Ma diciamo pure che i clienti del signore- indicando l'agente immobiliare- che sono stati proprietari del palazzo per lungo tempo hanno fatto parecchi giochi sporchi per non perdere un centesimo dalle loro rendite, sfruttando il fatto di essere una famiglia in vista cui nessuno avrebbe osato dire una parola sbagliata! Non è forse così, signor amministratore?!" Incalzato da quell'osservazione l'amministratore non potè che riconoscerne la veridicità: "Beh, ecco... insomma... diciamo che i proprietari non hanno fatto proprio le cose per bene..." "Truffatori furono! Altrochè... non usiamo delicatezze quando i fatti parlano chiarò" tuonò il geometra ritto all'impiedi sbattendo con tale forza le sue fotocopie sul tavolo da far cadere due bicchieri che rovesciarono vino sulla tovaglia candida. Agostina saltò su pure lei allora, portandosi le mani alla bocca per trattenersi le imprecazioni ma gli altri la ignorarono completamente tornando alla loro bagarre.
Agostina sollevò il suo piatto e con aria stizzita voltò le spalle e se ne tornò in cucina. Accese il piccolo televisore in bianco e nero proprio mentre l'orologio segnava l'orario d'inizio della sua telenovela: l'ultima puntata era importantissima, rivelava finalmente chi era l'amore segreto della protagonista che per tutta la durata della serie era stata affiancata da una sfilza incalcolabile di partner.
E invece, con gran disdetta della donna, appena sintonizzato il canale giusto si trovò un'altro notiziario flash con l'ennesimo opinionista che ribadiva i principi della libertà d'espressione, il diritto di poter dire liberamente cosa si pensava, di come lo sostenevano gli antichi romani e di come lo negavano i moderni oscurantisti. L'avrebbe saputo lei cosa dire se loro glie ne avessero dato il diritto!
Con rabbia acchiappò la pentola con cui aveva cucinato e la sbattè nel lavello con le altre stoviglie sporche facendo schizzare fuori l'acqua saponata. Sussultò e lo sguardò le finì così oltre la finestra da cui si vedevano ondeggiare al vento le tende da sole del balcone. Agostina trasalì: c'è una grossa macchia azzurrognola su un lembo della tenda, provocata da un liquido che continuava a sgocciolare dal balcone del piano di sopra. Era l'appartamento in cui viveva la sua nemica giurata, la moglie del portiere, che pure dopo la pensione del marito non aveva dimesso la sua attività di pettegola del palazzo, con cui si faceva concorrenza con Agostina.
Tra le due donne non era mai corso buon sangue perchè entrambe avevano il vizio di farsi gli affari di tutti tranne i propri, ma, redarguite più e più volte dagli inquilini, si accusavano vicendevolmente per scrollarsi le colpe.
Agostina non poteva assolutamente tollerare che quella chiacchierona rovinasse le sue tende e tornò decisa verso la sala da pranzo per fare rapporto all'amministratore, in barba ai condomini che non la smettevano più di fare baccano sulla sua tovaglia. Con un gesto deciso della mano li quietò tutti. Si accostò all'orecchio dell'amministratore, che stava ancora in piedi a beccarsi col geometra, coprendosi la bocca con la mano, bisbigliò qualche parola e l'uomo annuì aggrottando la fronte. Prese il telefono: "Signora Rosanna? Buongiorno, sono l'amministratore... sì, tutto bene... sì i nipoti stanno bene... sì... sì, Signora io... sì... io... Signora... Signora ascolti... Signoraaa!!- la signora Rosanna del secondo piano non si smentiva mai e ogni volta che qualcuno le rivolgeva la parola attaccava una chiacchiera infinita, con lo scopo fondamentale di carpire notizie su cui spettegolare- Signora Rosanna c'è qui Agostina che mi dice della tenda... sì la tenda del nostro balcone, le sta cadendo qualche cosa di sotto che ce l'ha macchiata... ecco, ecco... sì infatti le volevo proprio chiedere di scendere a vedere..." e in men che non si dica la moglie del portiere era sull'uscio.
"Buongiorno a tutti!- salutò con grande enfasi- Allora, cos'à da dirmi la sua domestica?" domandò all'amministratore rimarcando il ruolo di Agostina come un'offesa. "Andiamo a vedere questa tenda- propose l'amministratore alzando le mani- spero non sia niente di grave... ma lei Signora Rosanna cos'è che ha rovesciato?" "Mah, sarà stata la varecchina che tengo sulla lavatrice in balcone, si vede che la centrifuga l'ha fatta cadere" si giustificò la donna con sufficienza.
Tutta l'assemblea si trasferì in cucina, Agostina e Rosanna in testa che si scambiavano sguardi in cagnesco. La domestica indicò oltre la finestra, verso la tenda da sole del balcone su cui si era sparsa ben bene la macchia di varecchina scolorendone una parte. "Eh beh, la macchia si è fatta!" osservò l'amministratore, seguito da un bisbigliare di consenso degli altri dietro di lui. "E che sarà mai- commentò voltando le spalle Rosanna- ne vendono pure al supermercato di quelle tende lì, compratevene un'altra e fatemi sapere il conto che ve la regalo volentieri, anzi compratele tutte nuove che ormai le vostre sono belle che da buttare!" di certo Rosanna non rinunciava alla sua libertà d'espressione e nessuno osò risponderle. Ma Agostina perse proprio le staffe e tirò la manica della camicia all'amministratore per rammentargli quello che gli aveva detto prima: "Ah...Signora Rosanna aspetti... c'è qui Agostina che vorrebbe parlarle, trovo giusto che almeno esprima la sua opinione in merito, è lei che pensa alla casa del resto... Ecco, sì- assunse un tono più deciso e autorevole- voglio lasciare ad Agostina il diritto di parlare riguardo questa faccenda perchè siamo in un paese democratico e civile e siamo tutti d'accordo sul rispetto della libertà di parola, ecco!" l'antiquario accennò persino un applauso, subito sedato dalle occhiate degli altri tre condomini.
Rosanna incrociò le braccia e ticchettando con le dita sui fianchi restò ad attendere la tanto democratica dichiarazione. Agostina con un sorriso fiero avanzò verso di lei, inclinò la testa all'indietro come se prendesse la rincorsa e disse "Zoccola!". Tutti senza fiato li lasciò.
Dopo qualche secondo di incredulità generale l'amministratore intervenne: "Agostina! Ma cosa dici?! Ma che scherzi mi fai?" e la domestica si difese: "E' quello che penso, che non lo posso dire? Devo sempre starmi zitta, io! Invece voglio esprimermi liberamente e io dico che è zoccola!"
A quel punto Rosanna montò su tutte le furie e le portò le mani al collo: "Ma tu e tutte le tue parenti!" iniziò una baruffa che coinvolse tutti nella cucina, tra le due donne che se le davano e gli altri che cercavano di separarle, mentre alla TV trasmettevano un talk show dove ospiti importanti non riuscivano a stabilire con metodi civili se in Italia si preferiva la verità o l'educazione.
L'assemblea di condominio si concluse al pronto soccorso con alcuni contusi e un infermiere gravemente ferito.
Anche lo scandalo dell'estate si concluse, passando il testimone a quello successivo che annunciava l'autunno.

La festa del paese

Era una notte buia e tempestosa, aveva piovuto tutta la settimana e l'ultimo temporale aveva fatto saltare la corrente a tutti i quartieri confinanti con la chiesa, che condividevano una vecchia centralina elettrica.
Non che fosse un male, anzi: mai come quell'anno in paese si era sperato che qualcosa impedisse la festa patronale. Invece la malasorte volle che proprio al sabato sera in cui si concludevano i festeggiamenti in memoria del martirio di San Gualdino la pioggià cessasse e la corrente elettrica tornasse ad invadere le vie di luce artificiale.
Gianluca non usciva da giorni per via del maltempo e non ne poteva più. Aveva voglia di fumarsi una sigaretta e poteva approfittare della festa come scusa per uscire a cercarsi un posto appartato perchè aveva solo 14 anni e in casa non sapevano che fumava.
Ma San Gualdino doveva proprio avercela con lui "Mamma, io esco, vado alla festa" aveva annunciato defilandosi per la porta di casa "Aspetta! Vengo con te!" lo seccò sua madre sulla soglia.
Peggio di così non poteva andare. Per tutto il tempo la madre non aveva fatto altro che ciarlare "Ci tenevo così tanto a vedere la festa, tuo padre non mi porta mai da nessuna parte..."
Il ragazzo era già nervoso perchè la sua fumata in solitaria, era proprio il caso di dirlo, andava in fumo, oltretutto non voleva farsi vedere dagli altri ragazzi in giro con sua madre.
Per fortuna c'era poca gente in giro, molto poca. Vuoi per il freddo e l'umido, vuoi perchè di sabato sera le persone normali vanno a divertirsi in posti migliori, vuoi perchè di quella festa paesana non interessava niente a nessuno, ma la partecipazione era assolutamente scarsa.
"Uh, come sono contenta che c'è la festa, quando ero bambina mi divertivo tanto- continuava a squittire la mamma e Gianluca non capiva che c'era da divertirsi in quel mortorio- uh che belle le bancarelle! Ci prendiamo lo zucchero filato?  Uh, senti la musica!" "Ma'! Ma quale bello, non lo vedi che non ci sta un cavolo?" borbottava lui seccato da tanto ingiustificato entusiasmo. Tutta la strada principale del paese era stata transennata per impedire il passaggio alle automobili e lasciare libere le piazzole per le bancarelle. Ma le bancarelle non c'erano e la strada era vuota, accentuando ancor più la desolazione. Gianluca pensò che nemmeno i venditori ambulanti avessero accettato di partecipare.
Nel parcheggio del supermercato erano state montate due giostrine e un autoscontro. I giostrai con le facce tetre sgranocchiavano arachidi  e riempivano i marciapiedi di gusci, non c'era nessun bambino a quell'ora. Solo sulle macchinette della pista c'era qualche ragazzino che aveva tormentato il padre per farcisi portare.
Lungo le strade si alzavano i fumi di frittura dei chioschi che cuocevano pannocchie, patatine e panini alla porchetta ed erano le uniche attività intorno a cui le persone si radunavano, specialmente uno che aveva installato un ricevitore satellitare per trasmettere la partita di calcio della serie A: lì sì che c'era un bel mucchio di gente, tutta dedita a fare pronostici e discutere animatamente sul calciomercato come se si trattasse di roba loro, il che, tuttosommato, potevano farlo anche standosene a casa.
Non mancava un flusso migratorio verso la piazza del paese, in mezzo alla quale sorgeva la chiesa dedicata a San Gualdino, tutti andavano verso la musica rimbalzante sui muri delle palazzine, la cui eco arrivava fino al paese vicino.
Le ragazzine appena adolescenti agghindate da gran sera schiamazzavano, correndo lungo la via, tenendosi tutte strette sottobraccio con le altre, un po' infreddolite e un po' vergognose di sembrare contadine a festa ma con la speranza di farsi vedere dai ragazzi, che invece non si erano fatti vivi. C'era solo Gianluca a lanciare qualche occhiata ma solo per farle contente o avrebbero passato la serata a rimirarsi tra di loro.
"Uh che bello, la musica! Corriamo, andiamo a vedere!" starnazzava sua madre man mano che si faceva più forte il ritornello insopportabile di una mazurca importata da chissadove, tirandolo per le maniche, saltando ansiosa di vedere la più brutta orchestrina del mondo: una decina di fessi con addosso costumi gialli e rossi che pareva avessero scambiato la ricorrenza del martirio col Carnevale. La piazza era quasi deserta e le facce dei presenti erano tutt'altro che divertite, quasi li avessero costretti a stare lì al freddo a sorbirsi l'imbarazzante esibizione sul palco.
"Balliamo?" propose la mamma di Gianluca con un sorriso che le arrivava alle orecchie.  Questo era troppo "No!" rispose secco il ragazzo. La madre voltò la testa con l'aria di essersi offesa e si concentrò tutta sulla musica accennando qualche passo di ballo, esplodeva dalla voglia di divertirsi. Gianluca se ne rese conto e questo gli fece un po' male. Però che poteva farci lui, che era un ragazzo d'altri tempi, se quella festa avrebbe fatto pietà persino a San Gualdino stesso?
La mamma tornò improvvisamente da lui "A che ora li fanno i fuochi?" "Che??" "I fuochi, i botti, li fanno? Io li voglio vedere! Scusi, che sa quando fanno i fuochi?- domandò alle prima persone che si ritrovò nelle vicinanze- Lei lo sa? I fuochi a che ora li fanno? Ma qui in piazza o al belvedere?- nessuno sapeva rispondere. Finchè nelle tenebre rischiarate dalle lucette decorative sospese tra i lampioni  a cavallo della piazza, non comparve ondeggiante una piccola suora, diretta verso la sagrestia di gran lena- Sorella ma i fuochi quando li fanno?- la mamma non mancò nemmeno lei. "Eh, signora- rispose la suorina scuotendo nervosamente il capo avvolto nella cuffia velata- quest'anno niente!" "Ma come?! Perchè non li fanno?!!" fu quasi un grido di dolore.
"Eh, signora, quest'anno non ci sono bastati i fondi, purtroppo le offerte sono state troppo poche... giusto giusto per pagare la musica!" si giustificò quasi stizzita la suora indicando il palco e continuando a scuotere la testa, come a voler incolpare tutti gli abitanti del paese per non aver sganciato abbastanza.
La mamma di Gianluca pareva aver ricevuto un colpo al cuore- Ma io li volevo vedere i fuochi!- era una delle cose che Gianluca meno sopportava di sua madre questo attaccamento ai fuochi d'artificio, sempre uguali da decine di anni.
Ormai era il caso di tornare e la donna si avviò verso casa stringendosi le braccia al petto per il freddo e adocchiando un po' tutti i passanti come colpevoli della sua delusione. Gianluca la seguiva poco distante con le mani in tasca e l'aria annoiata. Passando davanti all'unico pub del paese allungò l'occhio oltre la porta aperta, per via di una cameriera che all'ingresso passeggiava sui tacchi luccicanti mentre chiacchierava sfaccendata al cellulare: dentro la sala era completamente vuota. Di sabato sera. Chissà dov'erano tutti, se fuggiti verso mete di svago più ricche di vita o rinchiusi nelle loro case a guardare il calcio e discutere del calciomercato.
Anche nell'ultimo tratto verso casa sua Gianluca non aveva incontrato nessuno di sua conoscenza (per fortuna). Persino i venditori ambulanti facevano i bagagli con in volto l'espressione pentita di chi aveva perso tempo e denaro. Quella non era la festa del paese: era il funerale!
Quando furono sulla soglia il ragazzo, ormai persa ogni speranza di fumarsi la sua sigaretta, sbuffò contento solo di potersene andare a dormire. La mamma, proprio davanti a lui, inserì la chiave nella serratura e spinse in avanti la porta. Si voltò verso il figlio, esibendo un sorriso radioso "Domani ci torniamo?"

Lavoro flessibile

Antonella aveva 19 anni compiuti da poco, un diploma fresco fresco e doveva finalmente affrontare la sua vita.
Abitava in una piccola città di provincia, quasi un paese, con un grande polo industriale che accoglieva ondate di operai da tutte le frazioni vicine. Antonella, come la logica suggerisce, aveva dapprima cercato un lavoro attinente ai suoi studi. Aveva studiato da disegnatrice orafa e si aspettava, quantomeno, di lavorare in un laboratorio di produzione di gioielli e altri accessori. Fu sfortunata però, in paese non c'era rimasta più nessuna azienda di quel tipo e nei piccoli negozi di oreficeria che si affacciavano sulla via principale non assumevano disegnatori, al massimo qualche commessa, ma che fosse esperta di contabilità, carature e altre discipline più commerciali che artistiche. Antonella quelle cose non le aveva mai studiate ma tanto di fare la commessa non le andava. Lei voleva disegnare anelli e collane, ed era anche molto brava.
Tentò di specializzarsi facendo domanda per un corso professionale in una scuola prestigiosa di moda e costume, che selezionava rigidamente gli studenti con un esame di ammissione. Antonella era pronta a tutto e avrebbe sostenuto qualsiasi esame... ma guardacaso le dissero che per quell'anno il corso non sarebbe stato attivato. Chissà chi era più sfortunato, se loro o lei, che nuovamente si trovava senza una strada per il suo futuro.
Dopo aver trascorso qualche mese a casa organizzandosi alla meglio tra iscrizioni agli uffici di collocamento, visite frequenti al Comune del paese, riviste di annunci, colloqui, corsi di orientamento alla fine si arrese a un suggerimento che le avevano dato certi suoi amici sfaccendati: le agenzie di lavoro temporaneo.
Si chiamavano così nelle grandi città. Nei piccoli centri invece erano dette cooperative. Antonella non capiva la differenza, sapeva solo che queste davano lavori saltuari di pochi giorni e sempre diversi. In quei tempi si facevano grande pubblicità queste agenzie, o cooperative: dicevano che il lavoro temporaneo era giovane, dinamico, flessibile, creativo. Lo slogan più comune era "gestisci il tuo tempo", come a voler dire che lavorare in quel modo permettesse di avere gli orari che più facevano comodo. Ma a sue spese Antonella scoprì che tutto ciò non corrispondeva al vero.
Dopo l'iscrizione non si fece vivo nessuno per giorni, poi una mattina alle 11, mentre si lavava i capelli ricevette una telefonata. Le chiedevano di andare in una fabbrica vicina a casa sua per sostituire una signora in maternità "...Sì, ma che devo fare?" volle sapere lei "Lo chieda lì". Strano, non sapevano qual'era la mansione che le affidavano?
Con i capelli bagnati Antonella si precipitò sul luogo di lavoro, si affacciò al gabbiotto del portiere e gli spiegò la faccenda della sostituzione. Quello non fece una piega, si alzò e le fece strada dentro un capannone dove una ventina di persone sedute intorno a dei tavoli armeggiava con delle buste postali di quelle gialle e grandi. "Cosa devo fare?" gli domandò lei, il portiere rispose di farselo spiegare dagli altri.
Allora Antonella si sedette al primo posto libero, tra una ragazza e una signora abbastanza matura. Queste due le insegnarono finalmente il misterioso "lavoro": le buste gialle contenevano i moduli di un censimento alle imprese di tutta Italia e loro dovevano aprirle una per una, dare un'occhiata sommaria al contenuto, appiccicare un'etichetta numerata e buttarle in uno scatolone. Se trovavano qualche altro foglio estraneo nella busta lo buttavano, se c'era scritto che il destinatario era deceduto o errato andavo messe in una scatola speciale. Tutto qui? - si domandò perplessa Antonella, tuttavia si avviò anche lei in quella pratica ripetitiva che le avrebbe occupato 8 ore della sua giornata con una paga di 8.000 lire l'ora.

La fabbrica era un'industria tipografica con degli operai fissi che stavano alle rotative, e per arrotondare si prendeva in appalto dei lavori esterni che non assegnava ai propri dipendenti ma si faceva mandare dalle agenzie, o cooperative, un po' di gente che non doveva assumere e quindi non doveva pagare con un trattamento normale.
Il censimento delle imprese italiane era nelle mani di Antonella e dei suoi colleghi, ai quali non poteva interessare di meno, per cui a volte si perdevano le buste o ne danneggiavano il contenuto. In qualche caso la busta gialla non era destinata al censimento e le Poste l'avevano buttata nel mucchio per sbaglio, così i lavoratori temporanei l'aprivano lo stesso e il contenuto veniva irrimediabilmente buttato. Antonelle vide andare perdute per sempre domande di lavoro, lettere dal carcere, raccomandate importanti e pensava a quelle ignare persone ormai danneggiate. Si spiegava finalmente perchè alcuni servizi postali non funzionassero.
Gli altri operai li chiamavano lavori dei deportati quelli che facevano fare ad Antonella, perchè erano veramente dei lavori stupidi che qualcuno doveva pur fare. A volte svuotavano buste, a volte riempivano buste. Raccoglievano fogli, attacavano etichette, chiudevano scatole, imballavano plichi, sballavano plichi, aprivano scatole, staccavano etichette e così via.
L'agenzia, o cooperativa, che li aveva mandati li pagava per il numero preciso di ore che avevano lavorato, registrate sui cartellini e se si andava via a metà giornata l'altra metà non era pagata. C'era l'inconveniente, però, che i lavori dei deportati finivano, ma nessuno poteva stabilire quando: tutto dipendeva dalla velocità con cui i lavoratori armeggiavano le buste. Ciò era controverso, perchè da una parte loro, i lavoratori, naturalmente facevano in modo che il lavoro durasse il più possibile, rallentandosi, perdendo tempo, nascondendosi qualche busta di scorta, d'altra parte i capi volevano che si sbrigassero, ogni giorno pretendevano un numero superiore di scatole imballate e di buste etichettate, perchè più stavano lì e più dovevano pagarli.
Con queste modalità non si lavorava tutti i giorni ma solo quando si veniva chiamati, il che poteva avvenire a qualsiasi ora del giorno. Non rispondere alla chiamata o rifiutare significava perdere il lavoro anche per mesi perchè avrebbero chiamato qualcun altro.
Antonella dopo pochi giorni in quel posto ci stava malissimo, anche perchè, oltre allo squallore del lavoro in sè, aveva scoperto che tra gli altri lavoratori c'era la gente più disperata, chi manteneva la famiglia così, chi aveva malattie, chi viveva quasi per strada. E si sa che certe cose scatenano guerre tra poveri, infatti in quel capannone aleggiava un clima di complotti e dispetti. Capitava alle volte che qualcuno venisse mandato via e mai più richiamato. Poi si scopriva che un altro lavoratore era andato a parlar male di quello con i capi.
C'erano due o tre persone che lavoravano sempre, tutti i giorni, per tutti i lavori. Antonella venne a sapere molto dopo che erano parenti dei capi.
Peggio ancora, nessuno di loro aveva un'assicurazione ne strumenti per la sicurezza. Se qualcuno si faceva male, cadendo da una pila di rotoli di carta o travolto da scatole mal riposte in colonna, in men che non si dica veniva regolarizzato, così quando, un'ora dopo circa, si presentava l'ispettore del lavoro, risultava sempre che il ferito era stato appena assunto dopo un periodo di prova e l'azienda non passava troppi guai. Ovviamente il ferito si prendeva una ramanzina per non essere stato attento e aver messo in difficoltà l'azienda.
Tutti loro erano schiavi, ne più ne meno.
Per circa due mesi la mandarono sempre alla stessa fabbrica. Ci lavorava per una settimana intera, poi una settimana a casa, poi dieci giorni filati, poi tre giorni a casa, poi un'altra settimana e poi due settimane a casa. Quando i giorni a casa cominciarono a diventare troppi Antonella temette che qualcuno l'avesse fatta cacciare parlando male di lei. Ma una sera, mentre era a cena, le arrivò la fatidica chiamata: la mandavano in un'altra fabbrica.
Era lontana da casa, in mezzo al quartiere industriale, intorno solo fabbriche, una pizzeria poco fornita per pranzare a sue spese e una strada trafficata. Appena arrivata la fecero entrare in un capannone più piccolo di quello in cui aveva sempre lavorato, ma molto più affollato. Non conosceva nessuno e non sapeva che lavoro doveva fare. Chiese agli altri lavoratori ma tutti erano scostanti, seccati dal doverle fare da balia e le rispondevano con sgarbo. Il motivo sembrava essere che più gente veniva convocata e meno lavoro c'era per tutti, quindi meno ore sul cartellino e meno soldi alla fine del mese.
In questa fabbrica Antonella non ebbe il tempo di capire cosa si producesse, ma il suo lavoro consisteva nell'imballare le confezioni delle schede SIM dei cellulari con le ultime offerte commerciali che poi sarebbero andate sugli scaffali dei negozi di telefonia. Questo lavoro aveva la particolarità per cui, trattandosi di articoli di valore, per paura che i lavoratori temporanei li rubassero, durante il lavoro venivano chiusi a chiave dietro un gigantesco cancello nell'area del capannone dove stavano radunati e alla fine della giornata dovevano registrare sul computer la quantità di oggetti che avevano maneggiato e tutti i movimenti che avevano fatto.
Antonella rincasò traumatizzata dalla giornata di lavoro e piuttosto che tornarci il giorno dopo telefonò all'agenzia, o cooperativa, e si diede per malata.
Per una settimana non si fece vivo nessuno, ma poi la richiamarono un'altra volta nella fabbrica vicino casa sua.
Nel mese di agosto la fabbrica chiudeva, per tutti. I lavoratori erano in ferie forzate e per tutto il mese non ci sarebbe stato lavoro nemmeno volendo.
Antonella in tre mesi che aveva lavorato così non aveva fatto lo stipendio di un mese di sua madre. A settembre telefonò per l'ultima volta all'agenzia, o cooperativa, per dire che si iscriveva a un corso professionale e che non avrebbe lavorato con loro per un pezzo.
Non ci tornò mai più. 

La macelleria

Molti anni dopo diventai vegetariana ma da bambina mia madre mi mandava a fare spesa tutti i giorni.
Odiavo la macelleria e la lasciavo sempre come ultima tappa del mio giro. Mi faceva schifo già dal nome, che per me evocava macello nel senso di gran confusione ma anche macello nel senso di mattatoio.
Una volta entrati si poteva uscirne anche un'ora dopo per via della fila di persone, lunga e lenta. Non perchè gli avventori bramassero carne come sciacalli e nemmeno perchè lì fosse migliore che altrove. Il motivo era che i macellai, tre fratelli uno più corpulento dell'altro, se la prendevano molto comoda. La loro attività li aveva arricchiti al punto di non curarsi eccessivamente della qualità del servizio. Era letteralmente una boutique della carne.
Un'altra cosa che proprio non sopportavo era la clientela, o meglio, una parte di essa: le signore anziane. Queste, per la maggiore pensionate benestanti e annoiate, facevano la spesa per passare il tempo. Dopo essere state in coda a chiacchierare per un pezzo, al momento del loro turno si appiccicavano al vetro del banco incerte "Mah, e adesso che prendo? Boh, non so che fare per pranzo. Che mi dai? Mah... Boh... Va bè, dammi quello, quello e quell'altro..." indicando a caso e spendendo anche 70.000 lire di carne che probabilmente sarebbe andata ai cani.
Io ero veloce, quando toccava a me srotolavo rapida e concisa quello che mi serviva, di solito qualche etto di fettine e un po' di prosciutto. Per le cose più complicate, tipo l'arrosto o il pollo, mia madre telefonava prima e se lo faceva preparare.
Una volta, a Natale, mia madre si era fatta preparare un abbacchio ma il macellaio che se n'era occupato non era tanto sicuro di averci azzeccato. Così quando andai a ritirarlo mi disse di entrare nel laboratorio a vedere. Camminavo a piccoli passi su un pavimento talmente intriso di grasso che si scivolava. Avevo il terrore di cadere e imbrattarmi. E poi c'era un odore di sangue da far vomitare.
Io non me ne intendevo di abbacchi e altre mattanze perciò me ne fuggii subito suggerendo allo scannavitelli di telefonare a casa mia per farselo spiegare meglio.
Alle superiori il professore di arte ci fece lezione sul quadro di Annibale Carracci, figlio di macellaio, che ritraeva una bottega d'altri tempi. Era del tutto diversa dalla nostra, ordinata, pulita, senza sangue e i macellai erano anche più belli. Se i Carracci avessero fatto spesa da noi non solo non avrebbero dipinto un bel niente, ma sarebbero andati a tirare una sassata alla vetrina.
Tempo dopo decisi di diventare vegetariana.

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Astenersi perditempo