sabato 26 novembre 2011

Un essere umano qualsiasi

Un giorno sulla Terra nacque un bambino che non era un essere umano qualsiasi.
I suoi genitori non sospettarono niente e gli diedero un nome molto comune, Andrea, perchè significa semplicemente "Uomo".
Andrea appena nato aveva già consapevolezza del Mondo, era cosciente di essere vivo e intuiva di avere una missione. Non piangeva spesso, sapeva che si sarebbero presi cura di lui e già dai primi giorni di vita si impegnò ad allenare il suo corpo appena nato per acquisire i giusti movimenti.
Gli dei videro questo prodigio e ne ebbero timore: il novello Ercole dimostrava un potere vitale enorme, si capiva che da adulto avrebbe dominato il Mondo e così, non essendo gli dei onnipotenti, ma qualcosa potevano pur farla, escogitarono come unico rimedio al potenziale devastante di questo semidio, la più bieca delle inibizioni: la timidezza.

Andrea a dieci giorni di vita improvvisamente cambiò: non ebbe più certezza che qualcuno l'avrebbe accudito e iniziò a piangere ogni volta che voleva qualcosa, anche solo un po' di coccole dalla sua mamma. Andrea non fu più quieto e silenzioso di notte perchè temeva che il dio del sonno, Ipnos, non lo avrebbe più fatto svegliare. Andrea non allenò più il suo corpo e assunse i movimenti incerti di qualsiasi neonato perchè ebbe paura che i suoi genitori si accorgessero che era "strano". Andrea, il semidio, iniziò allora a recitare la parte dell'essere umano.

A un anno di vita Andrea capiva perfettamente la lingua degli adulti ma si esprimeva solo a versetti e paroline accennate per non dare nell'occhio. Fu iscritto all'asilo nido insieme a tanti altri bambini ignari della loro stessa esistenza e li osservava e studiava per poi imitarli. Non riusciva a camminare bene, come gli altri, aveva smesso di provarci prima del tempo. Partecipava ai loro giochi banali annoiandosi molto solo per non essere allontanato.

A tre anni Andrea sapeva leggere ma fece finta di niente finchè non iniziò a frequentare la prima elementare.
Minerva, dea della sapienza disse: "Potrebbe sembrare un bambino prodigio ma in realtà è molto di più, i suoi genitori sarebbero costretti a mandarlo in una scuola speciale che non possono permettersi" e Giunone, dea del matrimonio e protettrice delle madri, aggiunse: "Sua madre dovrebbe lasciare il lavoro per seguirlo perchè nessun altro si prenderebbe la briga di farlo, diverrebbe sua schiava e sarebbe ingiusto" così, per volere delle dee, Andrea tenne ben segreta la sua intelligenza: sbagliò i compiti di proposito, si sforzò di peggiorare la sua calligrafia e di nascosto, nell'ora di ginnastica, fingendo di andare in bagno, strusciava il suo grembiule pulitissimo nell'erba del campo della scuola per far credere che avesse giocato a calcio con gli altri. In realtà Andrea non ci giocava a calcio: avrebbe potuto essere un campione, come in ogni altro sport, imparava prestissimo le regole ed elaborava strategie vincenti ma per la maledizione impostagli dagli dei si vergognava a farsi vedere in gioco dagli altri. Così guadagnò l'infamia di incapace nello sport e nei giochi di gruppo.

A dodici anni Andrea conosceva tre lingue straniere, apprese ascoltando la musica e guardando le televisioni internazionali. Comprava di nascosto, risparmiando la paghetta elargita da suo padre, opere di letteratura straniera in lingua originale. Talvolta, all'uscita di scuola faceva un salto al mercato del suo quartiere in cui c'erano molti ambulanti arabi e li ascoltava discorrere tra loro e imparando ogni singola parola. Lo stesso fece ad una cena con i compagni di classe al ristorante cinese. Un giorno, vedendo all'ospedale un sordo che si esprimeva nella lingua dei segni, comprese ciò che stava comunicando e si scoprì padrone di quel linguaggio al punto di usare spesso gesti anzichè parole senza accorgersene.

Andrea se la cavava egregiamente con le scienze, aveva già assimilato tutto il libro di chimica (e compiuto con successo degli esperimenti) nel primo mese di scuola superiore, risolveva problemi di matematica come passatempo quando si annoiava, conosceva a memoria le aperture e le trappole degli scacchi, sapeva a menadito vari linguaggi di programmazione e un centinaio di giochi di prestigio.
Mercurio, dio della sapienza occulta, dell'alchimia, dei ladri, dei viaggiatori e dei giocolieri, osservò: "Questo ragazzo conosce tali segreti che potrebbe ricattare chiunque, manomettere macchinari e produrre veleni. Ciò non è bene per un essere umano" e per volontà del dio, ad Andrea venne una grande paura di essere considerato un "secchione" e non fece altro che nascondere le sue competenze. Faceva scena muta alle interrogazioni, non partecipava mai a giochi complicati, fingeva di non conoscere la risposta degli indovinelli e prese a parlare come un buzzurro di periferia per mischiarsi agli altri.

Andrea da adolescente possedeva già una grande saggezza e sapeva da tempo qual era il senso della vita. Un giorno, forse per i pruriti puberali, si stancò di fare sempre la parte dell'idiota e decise di dare una lezione al suo compagno di banco bullo: "Non ha senso vivere alla tua maniera- gli disse- non otterrai mai il rispetto degli altri ma solo la paura di essere picchiati e non sarà un onore, no! Ti ridurrai al livello di una bestia!" per tutta risposta l'altro ragazzo gli sferrò un pugno in faccia sbraitando: "Ma senti 'sto stronzo! Fa il grandone adesso... vediamo se con questo impari a rispettarmi!"
Il dio della guerra, Marte, in quel momento notò che Andrea avrebbe potuto reagire con la forza di cento guerrieri: "Lo ucciderebbe, non sarebbe una battaglia onorevole ma solo una vigliacca tragedia" e per evitare il peggio ordinò alla sua seguace Pavor, la dea della paura, di frenare il suo spirito battagliero. Andrea non osò più dire una parola buona a nessuno, iniziò a temere le risse, ebbe paura dei bulli della scuola e di qualunque altro ragazzo un po' più grosso di lui. Andrea divenne per tutti un codardo.

Pavor non lo lasciò solo un attimo, per il resto della sua vita gli iniettò nel sangue il siero malevolo del terrore e dovette averci preso gusto a sfidare un semidio perchè a lungo andare esagerò estendendo le paranoie di Andrea a qualsiasi situazione in cui si sarebbe dovuto esporre.
Andrea non riuscì più a mantenere sani rapporti di amicizia, temeva orribilmente il giudizio degli altri, non reagiva alle provocazioni, fuggiva, si nascondeva, taceva. Andrea perse quasi l'uso della parola a diciotto anni.

Andrea imparò a scrivere con entrambe le mani in entrambi i versi, divenne un provetto giocoliere, leggeva gli spartiti ed era in grado di comporre musica. Avrebbe potuto suonare vari strumenti. Per un compleanno lo zio gli regalò una chitarra convinto che tutti i giovani ambissero a strimpellare qualche canzone melensa sulla spiaggia. Invece Andrea prese sul serio quell'arte e sognò spesso di diventare una rock star. Non fosse che per il sangue ammalato dalla dea persecutrice si vergognò sempre di suonare in presenza di qualcuno, di intonare una nota, di essere al centro dell'attenzione su un palco di fronte alle aspettative di un pubblico. Andrea mollò la chitarra e la musica, non ebbe mai più il coraggio di suonare e anche i rari tentativi di tornare sui suoi passi finivano in una inspiegabile paralisi alle mani, una voce che si affievoliva e un vuoto di memoria implacabile. "Tanto meglio- commentavano gli dei della musica, da Apollo a tutto il suo seguito- avrebbe un tale successo e una tale vena creativa da non lasciare possibilità a nessun altro e noi non possiamo permetterlo"

Il giovane uomo che diventava manifestava già un grande fascino. Andrea sapeva tutto dell'amore, del sesso, delle relazioni, intuiva i desideri delle persone e desiderava molto anche lui. Venere, dea dell'amore, stringendo il figlio Cupido tra le braccia e volgendo lo sguardo preoccupato a Eros, dio dell'amore carnale, dichiarò: "Se si rendesse conto del suo ascendente... se mettesse in pratica le sue arti amatorie tutti si innamorerebbero di lui, uomini e donne, tutti lo vorrebbero per sè... ma lui non potrebbe accontentare tutti e lascerebbe nel Mondo centinaia di cuori infranti e follia di desideri insaziati" e in accordo i tre dei fecero in modo che Andrea si imbarazzasse molto riguardo all'amore. Ebbe grandi difficoltà ad approcciare una relazione e le poche instaurate terminarono con forti rancori e un'arida solitudine.

All'università Andrea non ebbe più le idee tanto chiare: studiava moltissimo ma non si presentava mai agli esami per la paura di essere bocciato. Non aveva amici, si sentiva fuori posto in tutte le attività comuni. Le ragazze le guardava a distanza e non ci provò mai neanche una volta a rivolgere la parola a qualcuna che gli piacesse. Ci mise il doppio del tempo previsto per laurearsi e finì con l'accettare un lavoro squallido dopo mesi e mesi di infruttuosa ricerca.

Andrea si sentiva un fallito, un uomo qualsiasi senza nessuna ambizione ne capacità, disilluso su tutto e in estenuante attesa della morte. Thanatos, dal canto suo, si negava per dispetto.
Andrea dipingeva benissimo ma nella sua stanza c'erano solo tele bianche sotto strati di polvere, tubetti di colore ormai indurito, fogli di carta ingialliti con migliaia di schizzi che non si tradussero mai in qualcosa di concreto.
Andrea aveva un talento per la scrittura ma lasciò incompiuti (spesso al primo capitolo) una decina tra romanzi e poemi.
Andrea non riusciva a cambiare la carta da parati ammuffita. Andrea portava sempre gli stessi vestiti. Andrea ammirava il sole del mattino e non aveva coraggio di uscire di casa.
Andrea, da un bel pezzo, aveva imparato il modo di comunicare con gli dei ed era al corrente della sua maledizione ma non ne conosceva il motivo.
"Abbandonami Pavor" pregava. Quella, invece, si era talmente abituata al suo compito di tormentarlo che non lo ascoltava neppure "Oh... abbandomani Pavidiade!" la implorava esausto.
A peggiorare le cose intervenne il dio del timor panico, il fauno Pan, che tutti gli dei fuggivano. Pan osservava da anni la storia del semidio Andrea ridotto a una larva e volle metterci la sua parte. Andrea prese a soffrire di ansia, attacchi di panico, incubi e talvolta allucinazioni.

Andrea si sentiva devastato nell'animo e nel corpo. La percepiva quell'esplosione potente di vita che covava dentro di lui senza trovare mai sfogo, era consapevole di poter fare grandi cose e non riuscirne nessuna. "Dei, perchè mi fate questo?" pregava. Gli dei non rispondevano alle sue suppliche, ne avevano paura: dargli ascolto equivaleva a riconoscere la sua semidivinità e ciò andava evitato.
Una sola dea, impietosita, si presentò a lui: si esprimeva nel linguaggio dei segni, quello che aveva imparato tanti anni prima in un ospedale. Disse di chiamarsi Tacita, ma il suo primo nome era stato Lara e fu madre dei Lari. Giove le mozzò la lingua perchè parlava troppo, spingendola negli inferi e rendendola così dea del silenzio e dei segreti. Ora Tacita volle proprio rivelare ad Andrea il segreto della sua prigionia. Andrea, il semidio, seguì il guizzare delle sue mani che disegnavano il significato delle parole che lei non poteva pronunciare. "Ah, ho capito...- sussurrò Andrea- E che devo fare per liberami?"

Gli ultimi suoi anni Andrea li visse come un essere umano qualsiasi senza nessun potere, nessuna particolare capacità, poche nozioni. Di contro non aveva più paura.
Aveva degli amici, il giovedì andava al cineforum e partecipava ai dibattiti sul film, la domenica prestava servizio volontario alla mensa dei poveri. Molte persone avevano stima di lui, lo abbracciavano, ne parlavano bene. C'era anche una donna che l'amava.
Andrea dimenticò il senso della vita e insieme molte cose che un tempo aveva saputo. L'unica considerazione al riguardo, per lui fu che era molto meglio così.

giovedì 10 novembre 2011

Le lenzuola matrimoniali

Piero disfaceva le valige e buttava la roba un po' alla buona nei cassetti come fosse in albergo, sapeva che avrebbe lasciato la casa molto prima del previsto e non ci teneva più all'ordine.
Sfilava le lenzuola da cambiare e ci metteva quelle nuove, matrimoniali, che gli aveva dato sua madre. Erano quelle del corredo dei suoi genitori che non si usavano più da anni benchè lei dormisse ancora nel letto coniugale e suo padre su una branda in salotto. A Piero facevano schifo le lenzuola dei suoi genitori ma nella stanza che aveva affittato c'era un divanoletto a due piazze e non aveva lenzuola sue che andassero bene.

A Piero dava la nausea l'idea di dover tornare alla casa di famiglia. Era necessario, adesso che sua madre era sola e anziana qualcuno doveva badarla. Sua sorella non ne era in grado, studiava ancora e forse aveva intenzione di sposarsi.

Piero gettava sul grande tavolo da pranzo mazzi di scartoffie, i preventivi dell'impresa funebre, i documenti di chiusura dell'assicurazione, quelli per la chiusura del conto bancario, le fotografie per la lapide, l'ultima cartella clinica. Si alzava la polvere dal piano, il tavolo non era mai stato usato da che era lì: in un mese e mezzo avrebbe voluto invitare gli amici a cena più volte... ma che amici? Alberto era andato a studiare a Milano e forse partiva per l'Erasmus in Norvegia, Giuseppe era andato a vivere con la sua fidanzata e non si faceva più sentire, Marco parlava troppo e diventava facilmente noioso, non lo si poteva invitare da solo. Con tutti gli altri aveva perso i contatti da tempo, da quando aveva lasciato l'università.

Così il tavolo da pranzo era rimasto inutilizzato, troppo bello per servire solo da ripiano per la carta. La stessa fine facevano i piatti ancora imballati nella credenza. In frigorifero i barattoli aperti per una sola porzione andavano a male, il formaggio ammuffiva, il pane s'induriva. Perchè i negozi non vendono monoporzioni per chi vive da solo?

Suo padre faceva sempre una spesa esagerata, aveva la cossiddetta "sindrome della guerra", la paura di restare senza mangiare anche in un'epoca di sovrabbondanza. Era soprattutto quando passavano periodi di ristrettezze economiche che, paradossalmente, eccedeva con gli acquisti. Diceva: "Quando ti mancano i soldi la prima cosa che devi procurarti è da mangiare o puoi restare senza all'improvviso". Piero non approvava affatto quell'idea, tutte le volte le scorte di suo padre giacevano dimenticate nella dispensa, scadevano, marcivano e riempivano la casa di insetti.

Sua madre cucinava dalla mattina alla sera, non si capiva dove trovava il tempo. Preparava porzioni eccessive, metà finiva sempre nel secchio. Aveva letteralmente terrore che il marito si lamentasse di aver mangiato poco e per non sbagliare faceva sempre troppo. Ma tanto il marito si lamentava lo stesso, non gli piaceva mai niente, aveva una una critica pronta per ogni piatto che le strillava comodamente dal salotto, dove mangiava lui, alla cucina dove mangiava lei.

Piero e sua sorella si dividevano tra un tavolo e l'altro raccogliendo improperi, insulti, maledizioni che rendevano amarissimi i loro bocconi. L'ora del pasto era l'ora del litigio. Piero detestava la cucina di sua madre e ancor più detestava le lamentele di suo padre.
Nella nuova casa non mangiava quasi mai, nella solitudine non poteva consumarsi un rituale sociale come il mangiare.

Anche il divanoletto a due piazze era inutile. Con chi l'avrebbe mai condiviso nel poco tempo che gli restava lì dentro?
Tutte le sere si fumava una sigaretta, guardava le pareti, pensava se fosse il caso di appendere un calendario ma poi ci rinunciava. Il lampadario a gocce di cristallo era da pulire ma non gli interessava più, nessuno se ne sarebbe accorto. Piero spegneva la lampada sul comodino e nel buio si sentiva oppresso da quelle lenzuola troppo grandi, sporche, dei suoi genitori.

L'indomani mattina era in chiesa per le esequie. Ogni dettaglio era squallido e falso. L'ignoranza e il provincialismo fanno sì che anche il più ostinato oppositore politico e anticlericale abbia paura a non affidare il suo funerale ai preti "A me non ne frega niente della Chiesa - diceva suo padre - però a non fare un vero funerale mi pare brutto". Pareva brutto. Ma cosa? Chi si sarebbe sdeganto della bruttura? Piero era sdegnato innanzitutto per il drappello di parenti che non si vedevano più da quando i suoi si erano sposati (alcuni neanche li conosceva), piangenti e desolati, che offrivano le condoglianze con sofferta umiltà. Piero non versava una lacrima, voleva solo che la messinscena finisse presto.

Sua madre non riusciva neanche ad alzarsi dalla panca quando i passi della messa lo imponevano. Era china sulle sue lacrime. Pensare che quattro giorni prima aveva lanciato tanti di quegli auspici di morte che quasi pareva l'avesse ammazzato lei. No, in realtà era stata la crisi respiratoria che si minacciava da anni. Suo padre non riusciva a respirare, gli mancava sempre il fiato, non ce la faceva a tirare su casa le buste della spesa, non faceva le scale neanche per il primo piano. Però per litigare con la moglie e successivamente sfogarsi sui figli, il fiato non gli mancava mai. Un fatto curioso.

Piero assisteva disgustato al tetro spettacolo parentale. Si domandava che avessero da piangere, loro e la madre e anche sua sorella, che singhiozzava sorretta dal fidanzato. Che c'era da piangere? Lo avevano odiato tutti e Piero non riusciva ad elogiare una sua sola qualità.

Conclusasi la tumulazione tutti gli intervenuti si dispersero. Piero riportò madre e sorella a casa e andò a sdraiarsi nel letto singolo di quella che era stata la sua stanza e che lo sarebbe stata di nuovo di lì a breve. Guardava il lampadario da pulire, i ripiani impolverati, il calendario dell'anno prima rimasto abbandonato, l'orologio fermo da chissà quanto. Tornare a casa era una sconfitta. Ci aveva provato a conquistare la sua indipendenza e aveva ottenuto solitudine.

Non riuscendo a riposare si diresse verso il salotto. La branda era rimasta mezza disfatta dall'urgenza del ricovero, appoggiata al mobile dove giacevano le foto del matrimonio di trentacinque anni prima: pessimi vestiti, orribili capigliature, due facce per nulla convinte. Cosa si erano sposati a fare? Piero non capiva l'utilità del matrimonio, gli sembrava solo un contratto commerciale. E tale si era rivelato, poichè i suoi genitori non avevano mai divorziato per ragioni economiche.

A sua sorella la madre aveva sempre consigliato di non sposarsi ma lei si era convinta che la sua vita coniugale sarebbe stata migliore perchè aveva le idee più chiare di sua madre e non avrebbe vissuto quall'inferno di odio terminato solo con la morte. A lui nessuno aveva mai detto niente ne in un senso ne in un altro, forse perchè era maschio. Suo padre una volta ci aveva provato a lamentarsi con lui della sessualità ormai negata dalla moglie e Piero, inorridito, non ne volle mai più sapere.

martedì 8 novembre 2011

Pesce Palla

Questa scena si svolge più o meno nel 2006 e resta solo nella memoria di chi ha il coraggio di tenercela, del resto sono solo due persone a viverla ed entrambe, dopo, vorranno sopprimerla per sempre ma non è sicuro che ci riescano.

Questa scena si svolge su una terrazza invasa dal vento, all'inizio d'autunno, dove nessuno va mai e infatti solo una di quelle due persone ci tornerà anni dopo per la seconda volta.

Questa scena si svolge in un momento complesso per la vita di tutti e costringe una di quelle due persone a mettere in discussione la sua esistenza e fare una scelta. E' l'altra persona che sembra spingere perchè questa scelta sia fatta eppure sembra anche che non vi riponga poi tanto interesse. Ciò costituisce un paradosso.

Qualche minuto su questa terrazza ventosa, nascosta agli sguardi, accessibile per vie impervie e il palcoscenico della vita precipita, tutti i ruoli perdono presa e si confondono, le maschere s'infrangono rivelando altre maschere, il copione è stravolto e sebbene il passo sia falso è anche l'unico da fare.

In un tempo molto breve la messinscena è teminata.

In un tempo non molto lungo ma che pare infinito s'inscenano repliche mai del tutto fedeli all'originale che tuttavia s'aggrappano con artigli al filo conduttore della storia. Necessaria per quanto squallida.

Questa scena si conclude su quella terrazza dove nessun altro ha mai più messo piede e c'è una persona sola. Ad oggi non sappiamo se l'altra sia sopravvissuta.