martedì 20 marzo 2012

Unordered list

Elenco di cose che, malgrado tutto, hanno qualcosa in comune.


  • Imitare lo stile di un altro
  • Cercare il senso della vita su un motore di ricerca
  • Manuali di autostima
  • Trova la speranza nelle preghiere agli angeli dello zodiaco
  • Il segreto della confessione è inviolabile
  • Non riuscire a meritare 100 euro
  • Validazione dei css
  • Asservimento a un sedicente gruppo di rubacervelli per avere qualcosa di meglio da fare
  • Giacca-cravatta-tailleur-tacchi
  • Politica, politici, politicanti, politichese, polizia
  • Modelli di riferimento
  • Leggete i nostri insuperabili consigli su come trovare lavoro dopo i 50 anni
  • Le donne non fanno figli perché troppo occupate con la carriera
  • Generazione mille euro
  • Genio tutelare
  • Forze del disordine
  • Fiducia
  • Parlare incessantemente, fino allo sfinimento, della gioia
  • La mia delusione più grande mi costa 2 euro la settimana
  • "E' bella ma deve restare lì"
  • Consigli per la felicità: il miglior modo è rassegnarsi
  • Dipendenza dalla droga
  • Un inutile rischio
  • Rimorso o rimpianto
  • Comprare oggetti costosi per essere persone serie
  • "Osservo da una collina distante il mondo come il Paese dei Balocchi, pieno di colori e vita. Devo privarmene per raggiungere un fine migliore."
  • Combattere sempre per ottenere il meglio/accontentarsi delle piccole cose che si hanno
  • Leggi di Murphy applicate alla speranza
  • Bambini gratis
  • Incessante sensazione di nausea
  • Enciclopedia dei miti da sfatare
  • Contratto di lavoro. Contrarre una malattia.
  • "Fai finta di essere me. Guarda con i miei occhi"
  • Solo chi ama senza speranza conosce il vero amore
  • Scrivere libri, partecipare a trasmissioni televisive come opinionisti accreditati, organizzare conferenze, spacciare per assolutamente vere opinioni personali
  • L'imprinting
  • Contenere un tic nervoso
  • A causa dell'empatia percepisco fin troppo spesso la falsità, lo sforzo ipocrita delle persone che vogliono sempre sembrare positive, accompagnandosi con lunghe prediche a chi non fa lo stesso. Mi dispiace ma io vedo, so che il vostro è un tentativo disperato perché soffrite ma siete anche confusi e senza orientamento. Avete deciso di aggrapparvi a un'illusoria ancora di salvezza, buon per voi se vi fa stare bene ma io non vi credo.
  • Inibire il senso di fame
  • Life coaching
  • Tranciare le gambe a qualcuno per tenerlo sotto controllo
  • L'unico vizio che mi concedo
  • Persone che vendono organi per tamponare debiti
  • Business model
  • Non c'è una sola cosa che abbia senso
  • Trovare la verità nelle frasi delle canzoni
  • Un pezzo d'Italia che se ne va
  • Qualsiasi cosa non piaccia è riconducibile a un difetto genetico
  • Aforismi di guide spirituali di ogni tempo e ogni latitudine
  • Lanciare i dadi
  • A che punto del processo si è verificato l'evento critico?
  • Idea diffusa che i bambini siano spensierati e dimentichino immediatamente un dolore
  • Fare delle scelte
  • Partecipi della missione comune dell'umanità
  • ...

lunedì 12 marzo 2012

Benedetta parla col suo nume tutelare

Benedetta, malgrado il nome, si sentiva molto sfortunata e dopo l'ennesima vicenda critica, a metà della sua vita, non sapeva più che pesci pigliare.
L'atrio della stazione di domenica mattina era sempre desolato, mancavano i pendolari della settimana. Una piccola fermata di provincia, lontana dal centro abitato, mal collegata con un autobus poco frequente. Malandate panchine disposte a ferro di cavallo, pareti imbiancate di vernice e ingrigite d'incuria e degrado. Un tabellone degli orari penzolante e illeggibile, nessun altro utile avviso, uno sportello per le informazioni chiuso da anni, non un'ombra di umanità. Non un rumore di treno in arrivo.

'Cosa ci fai qui a quest'ora?' si domandava, stretta nelle braccia, seduta nella panchina centrale, con la faccia per terra, il respiro affannoso, un tremore diffuso e il battito del cuore che prometteva male. Era il preludio della tempesta.

"Cosa ci fai qui a quest'ora?" ripeté un'altra voce che non era la sua. "Non alzare lo sguardo- continuò- non mi guardare finché non avrai il coraggio di guardare dentro te stessa"
"Va bene- rispose lei ansimando faticosamente- resto così, ma ti prego, aiutami..."
"Lo sai degli ebrei?"
"Che c'entrano gli ebrei adesso?"
"Quando furono liberati dalla schiavitù in Egitto... vagarono per quarant'anni su un pezzo di strada che richiedeva dieci giorni di cammino. Il loro dio li lasciò girare su se stessi perché non volevano imparare la lezione."
Benedetta, dondolava la testa tra un sospiro e l'altro, a volte soffiando per espellere l'aria che si ingolfava nella gola, stringeva sempre più le dita intorno alle braccia senza accorgersi di farsi male. "E qual'era la lezione da imparare?" bisbigliò.
"Io ti posso anche aiutare ma tu devi riuscire a badare a te stessa, non puoi sempre aspettare la manna dal cielo. Una volta te la faccio piovere ma poi basta, devi pensarci da sola."
"Ah, ecco... mi mancava. Questa volta sei venuto fino qui con la manna, poi sparirai per sempre... anche tu."

Benedetta era bianca in volto, cerulea, le dita si fecero blu alle estremità. "Hai freddo?" domandò lui.
"Muoio di freddo. Muoio di tutto. Fa freddo, un freddo cattivo"
"È  perché non mangi. Che motivo hai?"
"Scommetto che lo sai già."
"Ammettilo. Dillo tu, se no non ne esci da questa stazione"
Benedetta in tre sospiri rumorosi raccolse tutta l'aria di cui aveva bisogno e disse: "Sì, è cominciato tutto a undici anni, ero sempre stata magrissima qualunque cosa mangiassi e non ci pensavo, poi è arrivata la pubertà e non mi ero accorta di essere ingrassata finché gli altri non iniziarono a prendermi in giro. Di lì fu una vita intera di digiuni, abbuffate, ginnastica distruttiva... ingrasso e dimagrisco, torna sempre il periodo che loro chiamano anoressia ma non ha mai interessato nessuno, mi commentano solo quando ingrasso."
"Ma questa volta che motivo avevi?"
"Il solito: volevo rendermi più attraente. Prima... ora lo faccio per morire"

In un momento lame di luce attraversarono la sala come riflesse da un vetro in movimento ma non si udì il motore di un'automobile ne il cigolio di una finestra. Che il sole guizzasse sulle pareti da sé?
"Io ti conosco da sempre- iniziò a narrare lentamente lui- mi ricordo tutto di te fin dal primo giorno. So che mi vedevi ma non potevi dirlo."
"Sai bene come andò, io non posso parlare, non ho mai potuto farlo"
"Così credi... in realtà parlavi. Ti tenevi ben nascoste le cose essenziali ma di tutto il resto avevi sempre da dire. È adesso che hai smesso. È più il tempo che passi muta che quello che respiri. Fai più rumore con l'aria che con le parole. La gente si spaventa di te."
"La gente è sempre spaventata di me- ringhiò a denti stretti Benedetta- perchè non si domandano... perchè non si accorgono che io mi devo difendere? Hanno sempre le armi sferrate anche quando vengo in pace, disarmata di tutto, mi accolgono a spade sguainate e poi si lamentano se ricorro al fuoco!"
"Non ce l'hanno la forza di capire, a loro sembra normale perchè alla tua stessa maniera si difendono. Siete stati tutti abituati alla guerra. Probabilmente pensate che faccia comodo, non si sa mai."
"I nostri genitori e nonni l'hanno vissuta, certamente crederanno che possa succedere sempre e ci hanno educati ad essere pronti a combattere"
"Questo lo hai capito, bene... adesso puoi darmi la mano, sono qui in pace" così dicendo protese le mani bianche verso di lei che, sempre senza alzare la testa, le afferrò fra le sue gelide e bluastre, lasciando la stretta sulle braccia dove il sangue ricominciò a circolare. Erano calde le mani di lui e si sentì confortata come non si sentiva da molto tempo, da anni, o forse non lo aveva mai veramente provato.

"Di cosa stai morendo?" le domandò con tono leggermente ironico come a sminuire la pesantezza della sua condizione.
"Di tutto, te l'ho detto... precisamente questa cosa la chiamano 'Attacco di panico' o 'Crisi d'ansia', non fa differenza, io ci soffro da un po'" ma mentre si spiegava sentì che la tachicardia rallentava e il tremore si dissipava. "Grazie di essere qui- disse trattenendo a stento le lacrime- ti ho aspettato tanto!"
"Ci sono sempre stato ma non posso intervenire così ogni volta. Questa volta è speciale perché hai fatto un passo di troppo e io vorrei cercare di riportarti indietro. Ma devi essere tu a decidere, io posso solo darti delle indicazioni."
Benedetta esitò riflettendo velocemente sugli ultimi vaghi ricordi che aveva della mattina prima di arrivare lì e notò con sorpresa che non ricordava chiaramente quasi niente tranne la sensazione di dolore fortissima che aveva allo stomaco mentre camminava spedita con qualcosa fra le mani e poi un'oppressione violenta alla gola. Il pensiero la fece sobbalzare dalla panchina ma ebbe la fermezza di chiudere gli occhi per non guardare l'altro. "L'ho fatto?" chiese.
"Sì."
"E allora... dovrebbe essere tutto finito. Che ci faccio qui a quest'ora?"
"Sei rimasta qui perché devi capire e solo dopo deciderai da che parte andare. Ma fino ad allora non ti muoverai da questo posto."

Lasciò trascorrere lunghi attimi di silenzio incredula di aver infine compiuto quel gesto che meditava da anni ogni volta che si sentiva ferita. "Ma... cos'è che devo capire?"
"Domandati perché lo hai fatto"
"Ma lo so. Per lui... anzi, non solo per lui, per tutti. Tutti c'entrano qualcosa. Mi ricordo tutto adesso. Mi ricordo di quando ero bambina, in balia di una povera pazza..." troncò le parole in una risatina sommessa.
"Cosa ricordi? Avanti, sforzati"
"Mi picchiava sempre, non potevo fare un solo gesto che non la mandasse in bestia. Avevo sempre i segni dei suoi schiaffi addosso. E le sue urla nelle orecchie. Ricordo che le altre persone se ne accorgevano e la rimproveravano ma lei si risentiva ancora di più, ero la causa delle sue frustrazioni. Non sopportava ne le privazioni ne il sentirsi dire che non era una buona madre.
Una volta, all'asilo, mi venne a prendere. Ero nel giardino insieme a una maestra che mi stava facendo ripetere la poesia per lei che avrei dovuto recitare. Mamma, oltre la recinzione, non lo capiva e continuava a esortarmi di uscire dal giardino ma io volevo continuare con la mia poesia. Solo quando terminai mi decisi ad andare verso di lei e in quel momento mi piovve in faccia una pietra che aveva lanciato un altro bambino. Allora mia madre corse dentro, verso di me e mi mollò un forte ceffone in testa gridando che avrei dovuto andare via quando lei mi aveva chiamato così non sarebbe successo... non glie la volevo più recitare la poesia!" Benedetta ridacchiò ancora ma non poté più trattenere il pianto.
"Te lo sei ricordato. E tuo padre?"
Tra i singhiozzi rispose: "Lui si vantava... si vantava di non aver mai alzato le mani su di me... facile! Ordinava a mia madre di darmi uno schiaffo! Diceva 'Guarda tua figlia cosa sta facendo, glie lo molli uno schiaffo?!' e lei obbediva avvelenata d'odio per essere stata ripresa, come se fosse colpa sua..."
"Lei era una donna sottomessa e succube del marito"
"Sì, lui era un mostro! E quando a scuola mi facevano di tutto lui non mi credeva, diceva che erano fantasie e ha lasciato che mi massacrassero... solo quando hanno danneggiato le cose che mi aveva comprato è andato a protestare!"

Benedetta piangeva silenziosamente coprendosi gli occhi con le mani di lui strette nelle sue.
"Adesso hai le idee più chiare? Adesso lo capisci da dove arriva il tuo senso di abbandono e la tua mania di aggrapparti agli altri quando ti porgono una briciola d'affetto?"
"Ma che potevo fare? La mia testa mi dice di fare così, non ce l'ho mai fatta a comportarmi diversamente eppure ci ho provato! Lo sai tu quante volte e in quanti modi!"
"Sì, ci hai provato."
"Lo sai, c'eri anche tu... per me tutti loro sono stati la mia famiglia, ogni volta che trovo degli amici finisco a viverci insieme come se fossimo tutti fratelli e prima o poi qualcuno mi riempie il cuore più degli altri... ma tutte le volte sembra che io gli abbia fatto del male, forse l'ho soffocato di attenzioni o forse mi comporto come quando ero bambina e non lo gradisce. Ma giuro che tutto volevo tranne che fargli del male. Com'è possibile ferire una persona amandola?"
"Tu non ci vedi proprio. Sei cieca."
Benedetta non riuscì ad aggiungere altro, ogni ulteriore commento sui suoi errori era solo una sferzata più profonda alla sua ferita.
"E adesso sei anche muta. Perché hai smesso di parlare?" insistette lui.
"Non possooooo!- gridò lei- Mi ha detto NO in tutte le salse, si è trincerato dietro il rifiuto prima ancora che io potessi dire una sola parola e poi ha continuato a chiedermi cosa mi piacesse di lui! È matto forse? È stupido? No, è solo vanitoso, gli piace sapere cos'ha di bello ai miei occhi ma io non glie lo dirò mai!"
"È solo l'ultimo della lista- osservò lui- si è sempre ripresentata la stessa identica situazione. Questo non ti suggerisce nulla?"
"Certo, ovvio... lo stesso copione, per molte volte. Che mi dovrebbe suggerire? Se non sono riuscita a cambiare fino adesso non ci riuscirò mai, ce l'ho nel sangue, nelle ossa e nella carne di essere così... sapevo che non sarebbe andata mai diversamente, avrei trascorso un altro lungo periodo di lutto e poi avrei trovato altri amici e tutto sarebbe ricominciato, nuove persone, stesse dinamiche, stessa fine, nuovo lutto... per questo ho deciso di finire. Non ha senso vivere così."
"Non hai assolutamente altro di cui preoccuparti?"
"No. Non ora. Ho fatto di tutto per essere accettata, ho studiato, ho preso i titoli, ho lavorato, ho dimostrato a tutti che posso vivere da sola e occuparmi degli altri, ho risolto i loro problemi, mi sono resa disponibile, mi sono occupata di me stessa senza chiedere niente a nessuno, convinta che dare un'immagine di me forte e indipendente mi avrebbe dato il diritto di stare tra loro. Invece non ha fatto alcuna differenza. Ero sola lo stesso. Io odio essere sola! Ti prego... resta con me... parlami, fammi compagnia... sii presente nella mia vita!"

Benedetta lo implorava senza guardarlo, stringendosi con forza le mani di lui al viso. Era il suo nume tutelare, lo spirito che l'accompagnava nel cammino della vita e che mille volte aveva invocato senza mai ricevere risposta. Ed ora si era fatto vivo, nel momento in cui lei aspettava un convoglio inesistente nella stazione della morte.
"Ascoltami- proseguì lei riprendendo fiato e allentando la tensione delle parole- come faccio a promettere che non lo farò più? Lo vedi che è più forte di me, ho trascorso anni in terapia per liberarmene ma non ha funzionato. Non posso decidere di smettere. Sarebbe come quando da bambina recitavo l'Atto di Dolore calcando forte le parole 'Propongo col tuo santo aiuto di non offenderti mai più' perché volevo essere aiutata da quel dio e non lasciata sola nel turbine dei peccati di cui mi macchiavo e da cui non riuscivo a riemergere. Sapevo che sarei andata all'Inferno, non avevo speranza, ero nata sporca e irrimediabilmente cattiva."
"Perché credevi questo?"
"Me lo dicevano loro. Mio padre e mia madre, mi odiavano perché ero la loro disgrazia... me lo diceva la suora che mi faceva da maestra elementare quando sbagliavo a scrivere. Me lo diceva il mio primo fidanzato, diceva che ero il suo cancro... mi chiamava 'Il mio cancretto'. Sono stata la pena di molti eppure ce l'ho messa tutta per comportarmi bene. Cosa vogliono ancora da me? Perché non si accontentano mai?!"
"Quante volte avresti dovuto alzare la voce... il tuo miglior pregio è anche il tuo peggior difetto: il rispetto degli altri. Per il quale ti sei privata di quello per te stessa."
"Non potevo parlare. Dovevo stare zitta."
"Avresti dovuto però..."
"NO! Mio padre diceva che non dovevo parlare!" urlò Benedetta piena di rabbia.
"Alzi la voce con me, adesso? Non ti servirà."
"Lo so, scusami. Non sei certo tu a meritarlo e comunque ormai è tardi"
"Tu non parli perché sai che non saranno d'accordo con te, perché le opinioni prestano il fianco alle critiche, perché non ami discutere e perché il tuo senso di giustizia ti impone di non sindacare le idee degli altri, quindi trovi del tutto inutile sprecare il fiato. È nobile da parte tua ma nessuno può saperlo, l'unica cosa che percepiscono è che tu hai paura di parlare."
Lei mormorò: "Lo pensassero pure, meglio che litigare su una cosa che non ha verità assoluta"
"Non riesci a capire che gli altri vogliono sentirti parlare per farsi un'idea di te e del mondo che celi?"
"Dici che è questo? Può darsi, non ci avevo mai pensato..."

Lui lasciò la stretta delle sue mani per cingerle il volto, le fece una carezza e disse: "Guardami"

giovedì 1 marzo 2012

La famiglia moderna

La tecnologia nella mia casa ha fatto ingresso alla stessa maniera di un tir guidato da un ubriaco in un viottolo di campagna. Tutta colpa dei miei genitori che hanno approcciato la faccenda in modi diametralmente opposti ed entrambi estremi, dunque deleteri.

Mio padre è sempre stato appassionato di tecnologia, fondamentalmente è una vendetta contro la sua infanzia povera nel dopoguerra. A scuola fu sempre piuttosto asino, non riuscì a terminare neanche la prima media e lo mandarono a lavorare a calci a soli tredici anni a far da apprendista in una ditta di insegne luminose. Così s'incamminò lungo la strada della nobile, quanto infausta per noialtri, arte dell'elettronica.
Quando avevo solo tre o quattro anni in casa nostra c'era già il computer, erano i primi anni '80 e i cosiddetti "calcolatori elettronici personali" erano delle scatolette da collegare alla televisione le cui principali funzioni, alla fin fine, erano i videogiochi.

Direte, allora, che sia stato un merito questa sua passione... no, aspettate. Adesso viene la parte critica.
Mio padre più che appassionato è sempre stato ossessionato dall'idea di rendersi la vita più comoda per mezzo della tecnologia, col risultato del tutto contrario di renderla a tutti più complicata. Come? Invadendo la casa di attrezzi di dubbia utilità.

Mia madre, invece, è sempre stata una sempliciotta restia a cambiare le sue abitudini: lei non ne vuol proprio sapere di adeguarsi ai tempi. Lei il Telegiornale lo chiama ancora Giornale Radio.
Ma la cosa più snervante è la sua netta opposizione alle comodità, quelle vere, non quelle di mio padre... che significa? Avete presente le confezioni di cartone munite di linguetta per aprirle facilmente e con ordine? Ecco, mia madre no e immancabilmente apre le scatole sfondandole con un coltello a partire dagli angoli superiori. Si faceva una volta. Una volta che non le è passata più.

Come pensate che possa vivere io in una casa dove impunemente si frammischiano Chindogu e Anarco-primitivismo?

Vado in cucina a fare colazione. Non trovo più la mia tazza. Apro tutti gli sportelli, mi cadono addosso sacchetti lordi di grasso e polvere, abbandonati da anni sugli scaffali più inarrivabili... che c'è dentro? Delle teglie sagomate per hamburger. Mmmm... perchè non le usiamo? Ah, perchè non mangiamo hamburger, ecco! In effetti mio padre le aveva comprate per delle cotolette di patate precotte che aveva trovato al supermercato, provate una sola volta e poi cassate per sempre.
Frugo tra le vecchie bollette ammassate dietro le coppe da gelato d'acciaio anni '70 e ne esce fuori una mascherina taglia-mele, è un affare che spingendolo su una mela te la taglia a fette geometricamente regolari. Abbandonato a se stesso perchè mio padre non ha forza nelle braccia e si stancava a spingere sulle mele.

Ma dov'è la mia tazza?
Giro per la casa, sulla porta d'ingresso vedo un grosso pezzo di nastro da pacchi appiccicato a coprire lo spioncino... perchè? É opera di mia madre: le dava fastidio la luce che ci entrava attraverso. E che cos'è quell'impacco sbilenco sulla credenza? Oh, mi sembra di riconoscerlo, sì! E' un vaso di coccio, cioè, lo era... deve essersi infranto cadendo ma invece di incollarne i pezzi mia madre lo ha ricompresso nel medesimo nastro da pacchi. Giuro che se trovo così la mia tazza io impacchetto mia madre.

Entro in salotto. Ci dovrebbe essere un ampio tavolo da pranzo da otto posti, invece c'è un ampio ripiano di cose precipitate una sull'altra. Da mesi il nostro salotto è il laboratorio degli orrori di mio padre: diciamo che un sesto dello spazio, per la precisione il suo posto a capotavola, è stato risparmiato, delimitato dalla irremovibile tovaglia piegata in due e fissata da portatovaglioli, saliera+pepiera+formaggiera tutto-in-uno e dosatore di stuzzicadenti (te ne fa uscire uno alla volta). Il resto è sommerso sotto un mucchio di pezzi di computer, campeggia una stampante-scanner-fax-fotocopiatrice USB stand alone, ci metti un foglio dentro e ti fa una copia a colori senza collegarla al computer. Sopra ci sta appoggiato il cadavere del suo predecessore: un fax-fotocopiatrice-telefono cordless-wireless, la sua colpa fu di stampare solo in bianco e nero. Di telefoni, del resto, non sentiamo la mancanza, ne abbiamo 6, tutti cordless con segreteria telefonica. Perchè mai giacciono inutilizzati? Perchè ciascuno di noi ha almeno un cellulare (mio padre quattro) e se qualcuno telefona al fisso di casa può essere solo una noia (telemarketing, mia zia, ecc...)

Non trovo ancora la mia tazza. Mi sto innervosendo e ho fame.
Improvvisamente sento un gemito affaticato, mi accorgo che la porta-finestra del balcone è aperta. Mi affaccio e trovo mia madre che, col viso corrugato dal dolore, spezza a mano gli spessi rami di una pianta rampicante sfondandosi le dita "Mamma, perchè non usi quelle?" le chiedo scorgendo le cesoie piantate nella terra (le ha usate per scavare). Risponde seccata "Oh, e lasciami stare, non mi va di usarle!" Me ne vado, non prima di sorprendere la mia tazza, ai piedi del vaso, impiegata a raccogliere bulbi marciti e foglie secche. Stamattina faccio colazione con un bicchiere.

Mi preparo un cappuccino espresso con la macchina super accessoriata che mio padre ci ha imposto di usare, ultima di una serie di cinque dal 1994 a oggi. Io preferivo la cara caffettiera moka e scaldarmi il latte in un pentolino sul fornello ma se mi vede a farlo non la finisce più di lamentarsi che "abbiamo le comodità perchè non le usiamo, dico io? che li spendiamo a far tutti questi soldi?" ah, boh... non lo so.
Afferro un cucchiaino nello scolaposate a 10 scomparti, zeppo di attrezzi da cucina: il mega coltello per il pane con leva regolabile per definire lo spessore della fetta, il filtro per il tè in foglie a chiusura ermetica con impugnatura a molla, la paletta pela-grattugia-ortaggi con tre differenti forature per diverse tipologie di taglio (julienne, fette, scaglie), un po' di mestoli di legno di cui uno solo evidentemente utilizzato e gli altri ancora intonsi ma anneriti dal marciume dell'umido, una pinza per raccogliere l'insalata e una simile per gli spaghetti, mai confonderle se no mio padre s'incazza.
Il cucchiaino presenta evidenti tracce di incrostazioni. L'ha lavato mia madre, anzi solo bagnato: lei sostiene che per posate e bicchieri il sapone non vada sprecato, basta una sciacquata e via. Lasciamo perdere, io vado al bar a fare colazione.

Dovrei dunque vestirmi, nel mio armadio non trovo i pantaloni ne alcune magliette e della biancheria. Faccio mente locale, ricordo che erano stesi la settimana scorsa e dovrebbero essere asciutti ormai.
"Mammaaaaaa! Dov'è la mia roba?" "Oh, e non mi scocciare! Apri gli occhi e trovala!"
Dopo intensa ricerca noto che su un ripiano dell'armadio, accanto alle confezioni ancora sigillate di contenitori per abiti traspiranti anti polvere, anti muffa e anti tarme, c'è un sacco nero di quelli per l'immondizia chiuso alla meno peggio con il nastro da pacchi. Ho un grosso sospetto. Lo apro squarciandolo con le mie nude mani (come avrebbe fatto mia madre) e indovinate cosa ci trovo dentro? I miei pantaloni, le mie magliette, la mia biancheria e anche quella di mio padre, il pigiama di quando facevo le medie e una divisa da lavoro di quattro taglie più stretta di chiunque abiti a casa mia.

Voglio scappare. Mi vesto, chiudo a chiave la mia stanza per scongiurare invasioni e mi avvio lungo il corridoio. Passo davanti alla libreria di casa: tutti i libri sono infilati con la costa contro il muro e l'apertura verso l'esterno, cosicchè non si sappia che libri siano. É stata mia madre, ha fatto le pulizie ieri e li ha rimessi dentro così, non le frega niente dei titoli tanto quei libri nessuno li legge.

Imbocco la porta, la intravedo intenta a legare con lo spago mucchi di telecomandi abbandonati da mio padre sulle poltrone, incrocio lui sul pianerottolo con una grossa scatola in braccio "Ehy, guarda che ho comprato! Una macchina per fare il pane in casa, così non regaleremo più i soldi a quello zozzo del fornaio!" Balbetto"T-torno su-subito..." e corro giù per le scale.

Sono fuori. Si respira. Mi nascondo in un bar. Ordino caffè e cornetto al banco. La tazza e il cucchiaino sono puliti, la macchina espresso fa solo quello che deve fare. Mi rilasso in questo limbo di aromi e musichette di sottofondo, interrotto improvvisamente dagli squilli del cellulare. É mia madre "Che per favore, prima di rientrare, mi compri un rotolo di nastro da pacchi?"